6 X TORINO
Novembre 6, 2005 in Arte da Stefano Mola
6 X Torino è un progetto voluto e prodotto in esclusiva dalla GAM, che ha invitato sei fotografi tra i più attivi nell’interpretazione del paesaggio perché guardassero e raccontassero che cosa è Torino oggi. Un gesto importante proprio in un momento in cui si dice che la nostra città è al centro di un grande mutamento, economico e urbano. Per la crisi della grande industria, per le opere pubbliche volute e strutturali (il passante, la metro), per quelle obbligate dallo sforzo olimpico.
Ma non è soltanto un gesto di testimonianza, un tentativo puramente documentale e storico, un appunto per ricordarsi poi di come eravamo e di cosa stavamo facendo. È anche un richiamo all’attenzione, se vogliamo a un’etica dello sguardo. Questi sei fotografi, che vengono tutti da fuori Torino, implicitamente ci dicono: questo è quello che ho visto io, ma tu, che cosa hai visto? Tu, come guardi la tua città? Muovi mai i tuoi occhi come quando sei all’estero, o in vacanza? Quanta attenzione metti quando cammini per le strade, quando sei in coda ai semafori, quando vai a fare la spesa? Quanto siamo troppo ripiegati su noi stessi di fronte alle cose di tutti i giorni? Quante volte abbiamo noi stessi, anche da dilettanti incapaci, fatto delle fotografie a Torino?
Un’etica dello sguardo è fondamentale. Una città è architettura: di tutte le arti, quella con la maggiore responsabilità sociale. Un brutto film, un brutto libro, un brutto quadro, sono più facili da evitare. La capanna di Heidi di piazzale Valdo Fusi no. L’architettura è qualcosa che si impone a tutti. Per questo l’etica dello sguardo è importante. Quanto ci preoccupiamo veramente di cosa sta diventando la nostra città? Non è un ragionamento soltanto estetico. Gli edifici non sono monumenti. Dentro, la gente vive e dorme e lavora e attorno passeggia e fa compere e va al cinema. Uno sguardo consapevole si porta dietro una carriola di altre domande. Se non fosse ormai una parola che non si può dire, dall’estetica può nascere un discorso politico. Ma facciamo finta di non aver detto questa parola.
È curioso poi passeggiare per la mostra e guardare la gente, ascoltarla parlare. È buffo come tutti noi cerchiamo immediatamente di riconoscere, di riportare le immagini alla nostra appartenenza. Ci chiediamo dov’è quell’angolo, quella via, quel palazzo.
Le foto sono trecento. E gli occhi che le hanno scattate, molto diversi. Si inizia con Olivo Barbieri. Che Torino l’ha guardata dall’elicottero. Ne viene fuori qualcosa di simile a un plastico dei trenini Lima. La città sembra finta, nella scelta di una luce nettissima e di colori leggermente freddi, plastificati. Anche se poi in ogni immagine non tutto è a fuoco. C’è un particolare, un dettaglio che lo è. Il resto sfuma in una indefinita liquidità sfuocata, che aumenta la sensazione di straniamento e di artificialità. Ne viene fuori uno strano puzzle dall’alto dell’intera città. Ci si chiede: è veramente così, oppure è una ricostruzione? Siamo proprio sicuri di quello che stiamo facendo? È un gioco, oppure possiamo ancora cambiare qualcosa?
Gabriele Basilico a un’operazione duale ma a rasoterra e senza il colore. Ha scelto un bianco e nero freddo. Si è mosso principalmente per direttrici: il passante, via Nizza, corso Francia. Questi tre assi sembrano campionati a frequenza costante. Il bianco e nero, unito alla grande presenza di cantieri e opere in costruzione, fa un po’ dopoguerra. Le sue immagini comunicano assenza, staticità. Le figure umane sono rare, la città sembra svuotata, le macchine parcheggiate lì per l’eternità. I palazzi spesso sono ripresi di fronte, e spesso di una tristezza pesantissima. Viene da chiedersi se non sia da approvare una legge che obblighi chi li ha progettati a viverci dentro. Una Torino immobile, da cui se sono andati via tutti, lasciando le cose a metà.
Franco Fontana affetta la città chirurgicamente ma poeticamente. Ci regala i dettagli di Torino sotto una luce completamente nuova. Non sceglie mai una visione di insieme, soltanto dettagli. L’ombra su un muro. Un lampione sospeso come lo stetoscopio di un ufo a interrogare la Fetta di Polenta in Corso S. Maurizio. Un colore pieno, squillante, soprattutto l’azzurro, quello che a volte rende splendenti le geometrie della nostra città tagliando loro addosso una luminosità matematica. I portici sono riassunti a ritmi di colonne e luci e ombre, in una serialità da musica di Michael Nyman. Ci aiuta in parte a capire la tanto discussa opera di Per Kirkeby in largo Orbassano. Guardate la foto della scultura accanto a quelle dei portici. In entrambe troviamo lo stesso ritmo di pieni e vuoti e ombra e luce.
Straordinarie le foto delle statue. Ci si potrebbe chiedere: ma come è possibile fare una bella foto di una statua, di quelle dei monumenti nelle piazze? Invece, le inquadrature di Fontana mettono le statue in periferia, negli angoli, oppure schiacciate nei bordi e dietro tanto cielo. È come se venissero sbalzate su un palcoscenico, distratte per un attimo dal loro ruolo commemorativo, investite di una teatralità metafisica. Così una delle statue della Fontana dei Mesi, al Valentino, si trasforma in una specie di urlo liberatorio saltato verso il cielo e le cime degli alberi. Fontana restituisce la voglia di guardare e di scoprire, di provare a immaginare in modo nuovo quello che c’è, di inventare storie.
Con Mimmo Jodice torniamo al bianco e nero. Anche nelle sue immagini c’è per lo più assenza. Nessuna figura umana. A differenza di Basilico, le inquadrature sono più strette. La città non viene filmata, ma interpretata. Molte sono le scelte di interni. Se Basilico fissa la città che c’è, e che forse sta diventando, anche se come abbiamo detto resta il sospetto di immobilità e di assenza, di disarmonia, Jodice coglie la città che non c’è più. Il capannone della Fiat Mirafiori Meccanica, ex officina meccanica due: immenso, deserto, solchi nel terreno come percorsi di talpe dimenticate, il pavimento sbrecciato e ricoperto di detriti. Le immagini delle Nuove abbandonate, abitate solo da una sagoma di cartone a forma di detenuto. Gli scheletri nelle teche del museo di anatomia umana.
Bellissima l’immagine del Museo nazionale del Risorgimento, il tavolo su cui si specchiano i pesanti tendaggi e i busti a lato: sembrano mummificati e condannati a una discussione politica irrimediabilmente superata dal tempo. Jodice dà alle sue immagini una dimensione metafisica importante, e sembra chiederci: cosa ne avete fatto di quello che avete lasciato indietro, di quello che siete stati, della sofferenza e dell’esclusione che avete generato?
Armin Linke è rimasto affascinato dalle scale a spirale (Camera di commercio, Mole Antonelliana) e dai confini della città. Sono foto con una predominante direzione orizzontale, e un colore vivo. Un cane solitario su una brandina al cimitero sud, delle incredibili pecore che pascolano in una rotonda di corso Orbassano. I centri commerciali. Tra i sei, forse lo sguardo meno forte. Aggiunge uno spostamento di attenzione vero quella zona indefinita dove la città si sfrangia e diventa un qualcos’altro, un non luogo, dove spesso la disattenzione, il brutto, l’anonimo, trionfano. Anche se in Linke non c’è accanimento nella documentazione della disarmonia, quanto testimonianza, a volte anche decisamente poetica.
Francesco Jodice ha optato per una scelta radicalmente diversa e secondo me bellissima. Invece di muri, strade, monumenti, cantieri, ci offre il futuro di Torino nei visi. Non andandoli a cercare nelle strade, ma ritraendoli in quell’aggregazione casuale che ne fa la scuola. Le classiche foto di classe, in cui bambini e bambine, ragazzi e ragazze, sono schierati come squadre di calcio. Le foto che abbiamo tutti, in qualche armadio.
Chiamiamolo destino, quello che ci assegna come compagni di viaggio quelli e non altri. Forse non è sbagliato: chi abbiamo a fianco può segnarci per tutta una vita, farci uscire dal guscio oppure impolverarci di solitudine, convincerci a rubare al supermercato oppure aspettare con noi un tramonto. E lo stesso potere, chiaramente, lo abbiamo anche noi. Sarà la eco di tutte le nostre foto di classe, sarà quel sottofondo di struggimento per tutte quelle possibilità aperte e indefinite che i visi di fronte a noi ancora hanno, a renderle così intense, addirittura commoventi? E le possibilità che ci sembra di intravedere, sono ancora aperte davvero?
Perché in queste facce e in questi vestiti a volte un sentiero pare segnato. C’è chi si affloscia nel suo corpo troppo grande, chi guarda l’obbiettivo come se fosse una telecamera, perché nei suoi occhi e vestiti c’è già il doppiofondo della seduzione. Chi sorride apertamente e ingenuamente, e chi interpreta uno sbigottito punto interrogativo. Chi non rinuncia a stringere forte la mano della sua compagna, e chi a sollevare il dito medio. Chi ci sembra in fase con l’età che dovrebbe avere, l’età in cui si dovrebbe giocare e non apparire, e chi invece è decisamente più avanti, un modellino in scala di altri artificiali più grandi modelli. E viene da pensare a quale crudeltà sia a volte la data di nascita, a come i percorsi di crescita reale possano essere così disomogenei. Oppure alla crudeltà estetica, perché è inutile negarci che quanto fodera la nostra anima non influenzi la nostra percezione e quella degli altri.
E in questi spazi astratti e neutri alle loro spalle, quadri svedesi di una palestra, giardini, fette anonime o famose di Torino, è un inganno pensarli tutti uguali dietro una linea di partenza. I fili delle loro vite sono solo apparentemente annodati tutti nella stessa matassa. Sono semplicemente affiancati, e ci si chiede chi troveremo un giorno sui manifesti elettorali, chi dietro alla cassa di un supermercato, chi a scrivere un libro, chi abbandonato su una panchina.
C’è da stare ore a immaginarsi tutte le loro storie, e verrebbe la voglia di una mostra come questa tra vent’anni, che ci racconti come è andata a finire.
Certo, poi queste foto dicono anche altro: l’innegabile multietnicità. Che non possiamo più ignorare, che richiede non solo astratte parole, ma fatti. Torino non è solo la Mole, il Valentino, la collina, Piazza San Carlo, scomodi cantieri, ma è anche, e soprattutto sarà, anche questo: genti diverse. Lo stiamo considerando, o è qualcosa che mettiamo sotto il tappeto per non vederlo?
Quando ci guardiamo intorno, ci stiamo facendo le domande giuste?
Fino al 08-01-2006
GAM – Via magenta, 31 sala mostre
Orario: dal martedì alla domenica dalle 10 alle 19. Lunedì chiuso
Ingresso: € 7.50 intero; € 4.00 ridotto
Informazioni: 011 4429518
Viste guidate: 011 4429546/47
Gruppi e scuole: 011 4429546/47
di Stefano Mola