Multivocalità (sulle corde)
Dicembre 4, 2009 in Musica da Redazione
Portogallo, Spagna, Senegal, Tunisia: la (grande) musica che non parla inglese.
Mafalda Arnauth, FLOR DE FADO, Magic Music/Egea 2009 (CD+DVD)
Anouar Brahem, THE ASTOUNDING EYES OF RITA, ECM 2009
Joan Isaac/Luis Eduardo Aute, AUTECLASSIC, Sony 2009
Badara Seck, FARAFRIQUE, Officine Meccaniche 2009
E’ incontestabile che, da tempo immemorabile, ciò che non possiede le fatidiche stimmate anglosassoni faccia una gran fatica a insinuarsi nel già asfittico mercato discografico nostrano. Soprattutto – va da sé – quando utilizza il veicolo della parola. Eppure, è fin troppo ovvio, la qualità non può certo parlare un’unica lingua. Spesso accade anzi l’esatto opposto. Una manciata di recenti uscite discografiche, provenienti da penisola iberica e Africa, non fa che rafforzare tale evidentissimo assunto.
Partiamo dal Portogallo e dall’ultimo album (il quinto) di Mafalda Arnauth, trentacinquenne cantante di Lisbona che s’inserisce nella gloriosa tradizione del fado, però con elementi personali. Mafalda, intanto, è spesso autrice dei propri brani: dei diciassette inclusi in “Flor de fado”, CD e DVD (tre le presenze comuni in entrambi i supporti), cinque sono interamente suoi, altrettanti almeno per il testo. Come interprete, poi, non c’è appunto che le si possa muovere: la sua voce è piena, partecipe, intensa, rotonda, netta nel timbro e possente nell’emissione. Ma senza strafare: ogni passaggio è reso senza forzature, su un elegante quanto suggestivo tappeto di corde (per lo più pizzicate: chitarra, chitarra portoghese, contrabbasso…). Il risultato è assolutamente delizioso, capace di abbinare magistralmente gradevolezza, concretezza e non-ovvietà (l’artista sarà in Italia dal 19 al 21 gennaio per tre concerti a Milano, Bologna e Monfalcone).
A sua volta “sulle corde” si sviluppa il CD di Joan Isaac, anche se qui al centro delle operazioni sta il classico quartetto d’archi, spesso arrangiato del pianista Enric Colomer, partner storico – quanto prezioso – di Isaac. Il quale, per l’occasione, ha tradotto in catalano (dall’originario spagnolo, quindi castigliano) dodici canzoni del collega Luis Eduardo Aute, a sua volta presente in voce in vari episodi del disco. Che è splendido. Sul piano interpretativo, trasposti al maschile, i rilievi sono grosso modo quelli fatti per la Arnauth: Isaac ha il dono naturale della melodia, la modulazione, il lirismo. La voce è in lui musicalità pura, la lettura del testo meticolosa, emozionata, teatrale nel senso migliore del termine. Ci sono pezzi già noti, nella sua versione, a partire da quella gemma assoluta che è La bellesa, e poi Les quatre i Deu, Dos o tres segons de tendresa, Autotango del cantautor, Tornar-te a veure, Una de dues, Sento que te’n vas i et perdo, Cine cine, A l’alba. Un disco, come si sarà capito, assolutamente esemplare (anche Isaac è atteso in Italia, per il 26 marzo al Folkclub di Torino).
Spostandoci parecchio in là, approdiamo in Senegal, da dove proviene (proprio nel senso che ormai da tempo vive in Italia, dove ha conosciuto fra gli altri Mauro Pagani, che gli ha prodotto questo che è il suo primo album) Badara Seck, discendente da una famiglia di griots, depositari dell’arte e della parola dell’Africa (dove lui torna spesso). “Farafrique” riunisce brani (dodici) incisi nel corso di diversi anni, con musicisti a loro volta per lo più africani. E anche qui le corde, accanto alle immancabili percussioni, giocano un ruolo centrale, specie la kora, sorta di arpa/liuto diffusa tra i popoli di etnia Mandinka in po’ tutto l’ovest africano. La vocalità di Badara Seck è spesso declamatoria, talora sfociante nell’urlo, secondo una prassi tipica di quell’universo espressivo. Per lo più ricopre un ruolo dialettico rispetto a un incedere ritmico iterativo e ritualistico. La ciclicità è del resto un archetipo di tanta musica africana (e più in generale extraoccidentale). Proprio in questo contrapporsi tra vocalità (anche multipla) e substrato strumentale risiede il maggior fascino dell’album (per esempio in brani quali Cala bante, Juvallo, Galo).
Ben poco sulla voce (poco più di un minuto in un album che supera i cinquanta) si erge l’ultimo lavoro su cui ci soffermiamo, “The Astounding Eyes of Rita” del tunisino Anouar Brahem, con tutta probabilità il maggiore specialista di oud, il liuto arabo, oggi in circolazione. Utile per cogliere i contorni di un’Africa profondamente “altra” rispetto alla precedente (qui è appunto l’universo arabo il bacino di riferimento), il CD ha in comune con i precedenti l’estrema attenzione al panorama dei cordofoni. Oltre all’oud, c’è in effetti un contrabbasso, oltre a un clarinetto basso, strumento quanto mai evocativo, a suo modo “esotico”, e percussioni aromatiche come darbouka e bendir, appunto di matrice maghrebina/mediorientale. Il fatto che a suonarli siano uno svedese, un tedesco e un libanese rende ulteriormente emblematico il lavoro, già di per sé esemplare, attraversato da quella pacata, quasi ipnotica intimità che è così tipica della musica araba (e non solo, ovviamente). Segnato anch’esso da un’iteratività ancestrale, peraltro di segno diverso, incorporea, aspaziale e atemporale, rispetto al precedente, il disco richiede un’adeguata disposizione di ascolto, scevra da quei parametri che, piuttosto presuntuosamente, noi occidentali riteniamo universalmente applicabili. Più sapremo liberarci di certe sovrastrutture estetiche, più potremo godere di scoperte altrimenti impensabili. Come appunto i quattro dischi incontrati oggi.
Links:
www.mafaldarnauth.com
www.jaonisaac.cat
www.officinemeccaniche.biz
www.anouarbrahem.com
Su Youtube:
Mafalda Arnauth – O Mar Fala de Ti
Joan Isaac – Manfred
Pejman Tadayon – Badara Seck
Astrakan Café – Anouar Brahem Trio
di Alberto Bazzurro