Recensendo Tancredi
Dicembre 8, 2009 in Spettacoli da Stefano Mola
Musicalmente ottimo, registicamente suggestivo, rossinianamente sopravvalutato. Ecco come sintetizzare il Tancredi, secondo titolo della stagione 2009-2010 del Teatro Regio. Distinzione tripartita necessaria, soprattutto per correttezza verso il lettore: deve sapere subito che la nostra fede nel musicista di Pesaro non è così salda ed inossidabile. Fatichiamo infatti ad accostare a quest’opera la parola capolavoro.
Ma veniamo dunque allo spettacolo in carne ed ossa. Partiamo dalla regia di Yannis Kokkos. La triste parabola del nostro eroe si svolge nei primi anni dell’anno mille, in pieno efferato medioevo. Kokkos sceglie di evocare, invece di provare a ricostruire o reinventare. Scelta che condividiamo appieno, poiché abbiamo un debole per quelle scene dove non si dà tanta importanza a quante cose sono presenti o alla ricchezza dei costumi. Più che l’occhio ingombro, ci interessa la funzionalità al progetto, e ci intriga sempre poterci appoggiare a un gesto o a una suggestione, completare puntini di sospensione lasciati lì. Mi piace quando esplicitamente si dice: questo è teatro, perché nulla toglie che da lì in avanti si possa aprire lo spazio di riflessione sulla vita.
Prendiamo ad esempio la scena di apertura. Dai lati si sporgono due archi merlati che lasciano alle loro estremità due torri sospese a mezz’aria. Sotto, due enormi cavalli rampanti e colorati. Uno spazio immediatamente riconoscibile (mura, torri, castelli e quindi cavalieri) ma non identificabile (non è il castello di, lo stile alla). Suggerisce di andare in quell’armadio interiore che abbiamo tutti e dove affastelliamo cose senza essere pienamente consapevoli della origine e della verificabilità delle fonti e di aprire il cassetto con l’etichetta “medioevo”.
A me è venuto un po’ in mente De Chirico, quando rappresenta una piazza che in qualche modo è familiare, ma di cui non sapremmo dare l’indirizzo. Inoltre, l’incongruenza delle proporzioni tra i cavalli le torri e i personaggi rimanda a uno spazio infantile dove nessuno bada al fatto che le scale siano ingegneristicamente rispettate: conta soltanto la storia che ci costruisci usandole.
Per lo stesso motivo ci sono piaciuti i pupi, sia come spettatori in tribuna, sia quando entrano in scena manovrati da tipi oscuramente vestiti e funzionano da raddoppio dei personaggi. Come quando lo sciagurato Argirio canta l’obbedienza della figlia alla sua nefasta decisione di unirla in sposa al tronfio Orbazzano. Ecco che a un certo punto entra in scena un burattino donna vestito da sposa, che Argirio prende per mano.
In generale il primo atto funziona meglio del secondo, ma qui non mi sento di attribuire colpe all’allestimento. È che il secondo atto, drammaturgicamente, non sta in piedi. Non succede molto, se non una sequenza quasi notarile di arie. E qui veniamo alla nostra fede in Rossini. Sarebbe ingiusto attribuire all’allora ventunenne compositore le mancanze d’una storia e d’un libretto sostanzialmente inconsistenti. Ciò non toglie che la nostra reazione di fronte a un titolo di Rossini sia sempre in due tempi. Prima è del tipo: ah, che bello. Dopo mi resta sempre una specie di retrogusto come d’un girare a vuoto.
Come nessun altro Rossini riesce ad esprimere quel certo fremito e quell’irresistibile crescendo che lo rendono inconfondibile. Però a me sembra anche sempre dietro l’angolo una certa meccanicità. In questo Tancredi poi vediamo nel ruolo d’un padre oppressore, normativo e poi coccodrilmente lacrimoso un tenore. Vero è che le regole sono fatte per essere sovvertite, vero che abbiamo ancora nelle orecchie il Germont della Traviata iniziale: però, un tenore che squilla invece che d’amore, di divieto, e poi passa il secondo atto a piagnucolare su una decisione che peraltro ha preso lui, ci lascia perplessi. Monocorde invece troviamo la parte di Tancredi. Certo, appena sbarca ci dà grandi speranze cantando il celeberrimo Di tanti palpiti. Ma poi resta lì, incatenato al suo dolore, cieco all’equivoco, sordo al minimo dubbio. Perlomeno Orbazzano è cattivo fin in fondo. Di tutti i ruoli, ci convince di più quello di Amenaide, forse perché è l’unica ad avere in mani tutte le chiavi della vicenda e quindi può palpitare, disperarsi ed illudersi: è senz’altro la parte psicologicamente più ricca.
E Patrizia Ciofi l’ha sfruttata magnificamente. Tutte le possibili sfumature della partitura ci vengono rese con una emotività convinta e appassionata, con una gestione dei volumi e delle esitazioni perfetta. Una di quelle cantanti che ti fanno dire: va be’, magari quest’opera non mi piace poi così tanto, ma resto fino all’ultima nota per non perdermi nemmeno un suo regalo. Il Tancredi di Daniela Barcellona è dolente il giusto. Antonino Siracusa, nei panni di Argirio, non sempre ci è sembrato in perfettamente in grado di reggere il passaggio dei volumi d’una parte sicuramente assai difficile. Buono infine l’Orbazzano di Simone Del Savio, così come la direzione di di Kristjan Järvi. Sempre di ottimo livello la prova del coro, diretto da Claudio Fenoglio.
di Stefano Mola