Giochi di superficie
Gennaio 21, 2010 in Fotografia da Redazione
Giochi di superficie è la mostra del fotografo Stefano Mola, esposta al Tribeca (via Matteo Pescatore 10, Torino) fino a Venerdì 29 Gennaio.
Il sottotitolo recita: datemi un piano d’appoggio e vi rifletterò il mondo. Al di là dell’intenzionalità ironica, quale mondo troviamo riflesso negli scatti dell’autore? Se dovessimo sintetizzare con una sola parola un tema conduttore, diremmo che è un universo caratterizzato dalla compresenza.
Fotografare significa estrarre e comprimere. Estrarre, perché di tutte le possibili sezioni rettangolari che si offrono al nostro sguardo, il fotografo ne sceglie una, recidendo così i legami con il resto. Possiamo fare mille ipotesi su quanto è rimasto fuori, su quanto è avvenuto prima o accadrà un secondo dopo, ma nessuna conclusione certa è consentita. Inoltre, un’immagine comprime perché elimina una dimensione. Questo può alterare i reali rapporti tra le cose, ma soprattutto permette di crearne di nuovi e diversi. In questo duplice senso ogni fotografia è un motore narrativo.
In qual senso allora parlare di compresenza e narrazione in questo universo riflesso? Ve ne sono tre declinazioni. In primo luogo, il raddoppio. Pavimenti tirati a lucido, superfici immacolate di centri commerciali, finestrini della metropolitana duplicano figure umane. Qui la compresenza è tra due versioni della stessa esistenza, una reale e una potenziale. Il riflesso è duplice: nel senso della legge fisica e nel senso del pensiero. Il rimbalzo della luce sui piani mette in moto la meditazione. Ogni scatto sospende il tempo e lo dilata, duale del tempo che la luce impiega per andare e tornare dalla superficie su cui incide.
Se nelle fotografie che raddoppiano il tema esistenziale è suggerito ma non ancora narrato, nella sua seconda declinazione è oggetto di finzione. Sono visi di donne, estratti ed astratti per lo più da cartelloni pubblicitari. L’oggetto commerciale viene eliso ed eluso, resta il volto, ora ambiguamente sorridente, ora malinconico e quasi perso. E il riflesso mescola pezzi di mondo: macchine, case, passanti, segnali stradali si sovrappongono e si intersecano a naso, occhi, bocca, e capelli. Questa compresenza che crea nuovi rapporti tra le cose è come uno zoom della memoria e nella memoria. Questa seconda declinazione è forse un passo in più e dentro le figure riflesse di cui abbiamo più sopra parlato? Che cosa c’è davvero dietro i visi e i volti che affollano i cartelloni delle nostre strade? Le nostre domande sono anche le loro? O anche: ci domandiamo veramente chi siano le donne che incontriamo e di cui spesso avviciniamo solo la superficie?
Domande probabilmente oziose, ma l’autore non orienta nessuna risposta. E nella terza declinazione il processo di frammentazione va ancora oltre. Siamo partiti dalla duplicazione della figura umana, e questa ha messo in moto il pensiero. Siamo arrivati ai volti, parzialmente decostruiti e sovrapposti alle loro memorie. Qui dove siamo? In un territorio dove non è più possibile riconoscere il confine tra il fuori e il dentro, dove sono sovvertiti quelli che siamo abituati a riconoscere come rapporti gerarchici del reale. Le superfici riflettenti fanno collassare uno sull’altro gli strati del mondo, mescolandoli e intersecandoli secondo leggi di geometrie non euclidee. Anche qui il richiamo alla sospensione e alla memoria è netto, e forse non è assente un richiamo all’inconscio.
Nei visi delle donne astratti dai cartelloni pubblicitari, credevamo forse di intuire qualcosa sui pensieri o sul passato. Da semplici icone, pur restando nella bidimensionalità rettangolare, potevamo in qualche modo restituire e ricostruire una profondità, andando così oltre la superficie, reinventando ciò che nei raddoppi potevamo solo intuire.
Il territorio di quest’ultima declinazione forse è visto da dietro le pupille di quelle donne, in un mélange di epifania, esperienza, precarietà della memoria, o semplicemente sogno. Una profondità emotiva e surreale, che va oltre la bidimensionalità dell’immagine. Non per ricostruire il mondo come è o come a volte per noncuranza siamo abituati a vederlo, ma per immaginarlo nuovo a partire dai dati presenti. Ovvero, per raccontare storie.
Pascal Bouvard e Gérard Pecuchet appartengono alla nouvelle vague della critica d’arte francese. Nel 2009 hanno curato il nuovo allestimento del MACO (Musée d’Art Contemporain Orléans). Il loro ultimo e provocatorio lavoro pubblicato è L’arte contemporanea ha ancora immaginazione?
Stefano Mola è nato a Torino nel 1966. Casualmente laureato in ingegneria nucleare, ha iniziato a fotografare grazie all’avvento del digitale. Fatte salve ulteriori rivoluzioni tecnologiche, non smetterà.
Le sue foto su flickr
Le foto della mostra Giochi di superficie
di Pascal Bouvard e Gérard Pecuchet