Settanta acrilico trenta lana
Luglio 29, 2011 in Libri da Stefano Mola
Titolo: | Settanta acrilico trenta lana |
Autore: | Viola Di Grado |
Casa editrice: | e/o |
Prezzo: | € 16,00 |
Pagine: | 192 |
L’universo di Camelia si è rotto quando il padre è stato trovato morto in macchina insieme all’amante. La bellissima madre Livia ha smesso di parlare, di uscire, di lavarsi, di farsi da mangiare. Ha iniziato a parlare solo con gli sguardi. Camelia ne condivide le giornate, esce poco, e del resto, che cosa c’è da fare in una Leeds dove il sole non pare aver diritto di cittadinanza, perché l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima, e Cristopher Road una via talmente brutta da essere una prova che Dio non esiste.
Camelia ha lasciato l’università. Per guadagnare qualche soldo traduce manuali di istruzioni per lavatrici. Butta via i vestiti che le ricordano la vita, quella degli altri, quella normale, quella da cui si sente esclusa. Un giorno aprendo il cassonetto ne trova altri, cuciti di sbieco, troppo stretti, con i bottoni sotto le ascelle, maniche sul sedere, pantaloni con tre gambe, scollature fino all’ombelico. Se li porta a casa, dove li sottopone a un ulteriore martirio chirurgico, a una contaminazione di ferite e toppe e tagli.
Saranno questi vestiti a portarla al negozio di Wen, un ragazzo cinese con cui ricomincerà a studiare cinese, con cui ricomincerà a parlare.
Non è difficile che abbiate già sentito come va a finire: di questo romanzo esordio s’è parlato molto, dicendo, spesso, anche troppo: io conoscevo già l’intera trama prima di iniziare a leggerlo. Il che, come sempre, non è un bene. Io per esempio ero un po’ prevenuto: di romanzi costruiti per accumulo di disgrazie ne abbia già a sufficienza.
In Settanta acrilico trenta lana abbiamo soprattutto la capacità di dare centralità al linguaggio, su una molteplicità di piani diversi.
In primo luogo, con un’operazione sulla lingua. C’è una ricerca continua, fatta di iperboli, sinestesie, allitterazioni, metafore, che ricostruiscono il mondo. Riesce a costruire una voce scivolando accanto allo stagno dell’artificiosità e del gioco di prestigio senza caderci dentro. Una lingua mangia-mondo, che lo legge e lo rimette sulla pagina a tinte forti, con la disperazione della privazione di senso.
In secondo luogo, il linguaggio come come comunicazione, o meglio, i linguaggi. I silenzi scambiati con la madre. L’interazione-contaminazione tra l’italiano, il cinese, l’inglese. Soprattutto il cinese, per la sua particolare natura ideografica: a sua volta un mondo per rappresentare il mondo. I caratteri disegnati e appesi alle pareti, oppure incisi sulla pelle. Il linguaggio dei vestiti.
In terzo luogo la rete simbolica, il leit-motiv dei buchi: praticati, osservati, fotografati. A ricordare continuamente un’assenza, una privazione, un’esclusione.
Forse qualche alleggerimento avrebbe giovato al libro (il buio permamente di Leeds, ad esempio, ci viene ricordato quasi ad ogni pagina), così come la conclusione lascia un sapore un po’ scontato. Ma nel complesso mi sembra una prova di assoluto valore, la nascita di una voce che sarà sicuramente da tener presente per le future prove.
di Stefano Mola