Istanbul

Febbraio 22, 2001 in Viaggi e Turismo da Redazione

Atterriamo ad Istanbul (fino al 330 D.C. Bisanzio, poi Costantinopoli e infine, dalla conquista turca del 1453, Istanbul appunto) che sono le 15 e trenta di venerdì 2 febbraio, le quattordici e mezza in Italia. Non appena il carrello dell’aereo poggia sulla pista ci accorgiamo che il clima non è esattamente quello previsto: un’ondata d’acqua si solleva accompagnando il velivolo nella sua frenata, mentre operatori imbacuccati sino al collo si avvicinano per l’operazione di scarico. Cinque gradi centigradi ci danno il benvenuto nella città-culla di intere civiltà.

Io e Marta, la mia compagna di viaggio, siamo accompagnati all’albergo Golden Age, dove alloggeremo per le prossime due notti. La stanza non è niente male e un celere facchino ci porta le valigie e illustra le comodità che l’albergo offre: bagno turco al quinto piano, piscina panoramica sul tetto, per l’estate però, e sala ristorante al secondo piano. Gli elargisco una mancia da un milione di Lire Turche e mi sento Onassis; in realtà ho fatto dono di poco più di 2000 £ italiane: 600.000 £ Turche = £ 2.000 Italiane circa.

Ci diamo una veloce rinfrescata e prendiamo un taxi per andare al centro storico della città, dove sono adunati i monumenti più importanti: Sultanahmet.

Non tutti i turchi conoscono bene l’inglese e il nostro autista rientrava nella categoria; gli domandiamo se avremmo trovato un buon ristorante, non troppo “expensive”, nelle vicinanze della Moschea Blu e lui risponde di conoscere un bel posto che è giusto lungo la nostra strada, e lì ci porta. Alle 17.00. Meditando sul nostro inglese, andiamo mestamente a cenare, immaginate voi l’appetito. Io prendo una specialità autoctona, un sandwich con carne cucinata e speziata in puro stile turco, mentre Marta si lancia su una curiosa ciotola ricoperta di pastella e farcita di riso, menta ed altre diavolerie. Usciti dal locale torniamo dal nostro tassista, ma saliamo sul taxi di un altro, identico; il nostro ci recupera al volo, temendo probabilmente che volessimo fuggire senza pagare i dodici milioni che il tassametro contava, e sorridendo a 360 gradi ci scusiamo e scendiamo dalla macchina sbagliata.

Giunti a Sultanahmet sgancio 18.000.000 £ Turche e mi rendo conto di quanto freddo faccia: la bocca fuma come una ciminiera e Marta cerca riparo dalla pioggia con il suo mini ombrello, ma il vento glielo spalanca dalla parte opposta a quella giusta. Decisamente non me l’aspettavo così la Turchia, Paese metà europeo e metà asiatico, come Istanbul stessa d’altronde. Avrei dovuto leggere la guida con più attenzione e adesso non mi troverei con lo zaino pieno di T-shirt.

La Moschea Blu sta per essere chiusa alle visite e il telefono mi squilla: è Marco, un tipo di Napoli che abbiamo conosciuto sull’aereo. Mi dice che si trova dentro la moschea con la sua ragazza, Roberta. C’incontriamo dentro, tutti quattro scalzi, come vuole la cultura musulmana, e passeggiamo sui comodi tappeti che rivestono il pavimento della casa di culto; scattiamo qualche foto e usciamo a cercare un negozio che vendesse calze. Roberta aveva affogato un piede nella pozzanghera simpaticamente piazzata all’uscita della moschea, e non sembrava bello buscarsi un malanno appena arrivati.

Risolto il problema, pensiamo alla cena, e veniamo aiutati in questo dai pronti gestori di ristoranti che attendono i turisti al varco del loro locale.

“Italiani, spagnoli? Venite ad assaggiare specialità turche…”

Intercalando al discorso il nome di Fatih Terim, loro connazionale attuale allenatore della Fiorentina calcistica, l’amicizia nasce spontanea. Tra una battuta e l’altra (i turchi sono dei grandi commercianti, e sanno incantare come solo i migliori uomini d’affari riescono) ci gustiamo alcuni piatti tipici (kebab, kofte e altre leccornie) fino a trascinarci sul taxi più vicino per tornare al Golden Age. Diciamo all’autista il nome dell’albergo, ma quello sembra non conoscerne l’esistenza; glielo mostro sulla cartina e pare capire dov’è localizzato, salvo fermarsi dopo pochi chilometri per chiedere informazioni a colleghi parcheggiati in attesa: e il tassametro va avanti. Non soddisfatto, l’autista inizia a strombettare per la città, passa con un rosso, taglia la strada alla “Tourist Police”, e il tassametro continua a salire inesorabilmente, fino a scaricarci davanti al Hotel sbagliato, anche se identico al nostro: il Golden Age 2. Ventun milioni £ Turche pagati con 50 $ americani: di sicuro il tipo ha fatto la cresta pure sul resto, in moneta istanbulese naturalmente.

Sabato gita organizzata sul Bosforo, pausa pranzo a base di pesce, trasferimento nella parte asiatica della città, visita del Palazzo Beylerbeyi Sarayl, sosta al negozio di tappeti più antico di Istanbul e finalone al Gran Bazar, il mercato più grande del mondo.

La traversata del Bosforo dura due ore circa: alla nostra sinistra l’Europa, alla destra l’Asia. Scatto qualche foto sul ponte del traghetto, una mano sul cappello perché non voli via, “schegge” di ghiaccio mi graffiano la faccia mentre allegre cinesine mi saltellano intorno senza neppure un giubbotto. E’ l’occasione giusta per immortalare il Bogazici Koprusu, il ponte che unisce due continenti. Intanto la guida illustra le sfarzose ville della costa asiatica, di proprietà dei generali dell’esercito turco, uno dei più importanti al mondo, superiore a quello della NATO per numero d’arruolati.

Approdiamo alle 12.00 e subito andiamo a ristorarci a base di pesce in un triste ristorante, tanto grosso quanto vuoto. Il paesaggio che si mostra di là dal muro vetrato del locale è malinconico, il mare calmo, un vento gelido investe la strada deserta.

Si risale sul pulmino e si parte per il ponte, che termina con il curioso cartello “Welcome to Asia”: un cartello che ti dà il benvenuto non in una città, né in uno Stato, ma in un Continente!

La visita a Beylerbeyi Sarayi è la visita del Palazzo in cui un tempo viveva il Sultano: che altro aggiungere? Tappeti “ricamati” dagli abitanti di un paesino limitrofo Costantinopoli, tutti dediti ai servizi del Palazzo; splendidi lampadari lavorati dai maestri di Boemia che pendono dagli alti soffitti ed antichi vasi orientali che giacciono sui soffici divani! Dopo il terremoto che devastò Istanbul pochi anni or sono molti vasi furono distrutti, così i custodi del Palazzo hanno pensato di cautelarsi.

La tappa successiva ci vede seduti sulle lunghe panche che seguono il perimetro di una stanza piena di tappeti, i più pregiati della Turchia. Un funzionario statale ci illustra le magnificenze di pezzi in pura seta, che cambiano di colore a seconda del punto di vista. Poi, da buon commerciante, cerca di piazzarcene qualcuno.

Infine il Gran Bazar, tristemente noto per essere luogo della sparizione di parecchie donne bianche; la tratta delle donne bianche è argomento “tabù” per i turchi: completa omertà, a beneficio del turismo.

Centinaia di botteghe costeggiano le vie del mercato; per lo più sono gioiellerie, ma non mancano souvenir, magliette e valigie.

L’ultima notte ad Istanbul la trascorriamo in Piazza Taksim, in pieno centro moderno, in compagnia di Marco e Roberta.

Entriamo in un locale di curdi, che è tanto quanto entrare in un pub d’irlandesi a Londra per intenderci, e subito veniamo coinvolti dall’atmosfera calda e malinconica che invadeva l’angusto pub. Ci accomodiamo su sedioline adatte ad un bimbo di tre anni, non sto scherzando, e sorseggiamo birra locale. Poi d’improvviso il tipo con la strana chitarra in mano intona una melodia tristissima, tutti si alzano e, stringendosi i mignoli a vicenda, iniziano un’assurda danza fatta di ondeggiamenti e grossi sorrisi. Affascinante tanto da farci battere le mani a tempo con i pochi rimasti a sedere, ma solo perché non c’era abbastanza spazio da unirsi al ballo.

Concl
udiamo la serata al Golden Age, parlando di quel che ci saltava in mente. Alle 4.00 ci salutiamo ed io e Marta prendiamo il taxi per l’aeroporto. Ultima avventura ad Istanbul: l’autista convinto di essere nel circuito di Monza. Ha tenuto una velocità media di 100 Km/h, coprendo una distanza di circa 25 Km in poco più di un quarto d’ora. Roba da turchi!

Ah! Un’ultima cosa. Il detto “Fumano come dei turchi” non è solo un detto.

di Gianluca Ventura