Elogio dell’essenzialità
Novembre 22, 2004 in Spettacoli da Redazione
Il Torino Film Festival conferma la propria vocazione di avamposto italiano del cinema indipendente, ma soprattutto la tendenza a privilegiare nelle sezioni più importanti le cinematografie emergenti, soprattutto quelle orientali. Oltre all’Italia e alla Francia, solamente il Giappone poteva contare su due opere in concorso, le altre pellicole provenivano da Corea del Sud, Germania, Malesia, Hong Kong, Cina, Argentina, Iran e Stati Uniti. Una presenza massiccia dell’Asia. Non poteva essere altrimenti in un festival che – lo ricordiamo – fino a poco meno di dieci anni fa si chiamava “cinema giovani”.
Miglior film della ventiduesima edizione è Los muertos dell’argentino Lisandro Alonso. La storia del viaggio di Vargas, scarcerato dopo una lunga detenzione, alla ricerca della figlia diventata ormai adulta si trasforma nel racconto di eventi ordinari come mangiare un gelato o comprare un regalo. Il cammino di Vargas è permeato dal mistero che la natura emana e scandito dai volti impenetrabili di chi abita le sponde del fiume. «Per me – dice Alonso commentando il suo film – non ha senso alzare la voce o forzare il significato, mi piace che sia aperto. Per molti il film può essere solo la storia di un viaggio e a me va bene che sia così». La giuria composta da Roberto De Francesco, dal portoghese Joao Botelho, il cinese Jia Zhangke, l’iraniano Babak Payami e la statunitense Kelly Reichardt ha dimostrato grande coerenza assegnando il premio speciale a Inu Neko (The cat leaves home) di Nami Iguchi. Un film delicato, leggero, fatto di piccoli gesti quotidiani che si è portato a casa anche il premio Fipresci e una menzione nel Premio Golden per la sceneggiatura. La storia è presto detta: Suzu e Yoko si conoscono dall’infanzia e hanno la brutta abitudine di innamorarsi dello stesso ragazzo. Le circostanze le costringeranno a una convivenza forzata descritta senza orpelli, con uno stile impressionistico capace di trasformare i dettagli in poesia.
Di tutt’altro stampo L’esquive, il film di Abdellatif Kechiche premiato per la miglior regia. Un gruppo di ragazzi della banlieu parigina prepara lo spettacolo di fine anno scolastico, “Il gioco dell’amore e del caso” di Marivaux. La pellicola del regista tunisino già autore dell’ottimo “Tutta colpa di Voltaire” è un viaggio nella vita degli adolescenti di periferia, alla scoperta del loro gergo, del loro sistema di valori e del loro immaginario. Krimo, Lydia, Frida, Nanou, Fathi e Magalie vengono rappresentati da Kechiche fuori dai cliché offensivi che li vogliono vittime o delinquenti.
Francese è anche Illumination di Pascale Breton sicuramente l’opera più affascinante in concorso. Il ritratto del giovane Ildutt, introverso e sognatore al limite della follia, è tracciato con mano ferma da questa regista innamorata di un paesaggio che è spesso proiezione dei fantasmi del protagonista. Opera di confine, il film della Breton è inclassificabile, non appartiene né al realismo, né allo psicologismo, non è romanzo di formazione, è, piuttosto, un dramma della solitudine che va nella direzione di un cinema che mira con intelligenza all’essenzialità in un rapporto osmotico e proficuo con la recente produzione d’Oltralpe.
Se un minimo comune denominatore si vuole ritrovare alla scelta degli altri film del concorso lungometraggi è proprio la rielaborazione della tradizione con nuovi mezzi, la contaminazione dei generi – e in alcuni casi – delle tecniche. Si pensi ad esempio a Moshen Tiantang (An Estranged paradise) che risente in maniera decisiva della formazione fotografica e pittorica di Yang Fudong, uno fra i più importanti artisti dell’avanguardia cinese. Con un doppio salto mortale Fudong sperimenta volgendo il suo sguardo verso il passato, con un bianconero che ricorda i primordi del mezzo cinematografico e una narrazione essenziale e impressionistica che racconta la nouvelle vague. Alla tradizione degli anime guarda invece Casshern opera prima di Kiriya Kazuaki il quale – riprendendo la serie animata nipponica Kyashan – crea un ibrido fra Frankenstein e Metropolis, con un idea di cinema che si avvicina molto alla triologia del “Signore degli anelli” di Peter Jackson. Un’opera sovraccarica, eccessiva, stancante. Undertow di David Gordon Green – già vincitore a Torino nel 2001 e nel Sundance due anni dopo – si aggira nei paraggi della “Morte corre sul fiume” raccontando la storia carica di violenza di una famiglia distrutta dall’odio di due fratelli, dall’avidità. Lo sfondo è l’America rurale che conosce a menadito la Bibbia e che ha riconsegnato per la seconda volta lo scettro del potere a George W. Bush, lo stile, dopo un avvio che promette, ma non mantiene, asciutto, classico, privo di invenzioni. Ul gool up nun mi nyeo (Hypnotized) di Kim In-sik conferma il talento formale della nuova onda di registi sudcoreani e s’inserisce nel filone del dramma familiare già visto, ad esempio, con “La moglie dell’avvocato”. Il sangue come al solito non manca e il film paga un finale eccessivo che scivola senza ragione nel kaidan eiga di second’ordine. Una scelta poco meditata, davvero un peccato viston che proprio dalla Corea del Sud erano arrivati i film più belli delle ultime edizioni del concorso lungometraggi. Da Hong Kong è invece sbarcato al festival Jiang Hu (The left hand) di Wong Ching Po con la superstar locale Andy Lau. I temi sono quelli tipici: l’amicizia fra due gangster messa alla prova dalle circostanze.
Dalla Germania Make my day di Henrike Goetz, dalla Malesia The beautiful washing machine di James Lee, dall’Iran Parvane ha badraghe mikonand (The butterflies are just a step behind) di Mohammad Ebrahim Moaiery hanno completato la sezione in cui sono stati presentati in anteprima nazionale due film italiani L’iguana di Catherine McGilvray e Notte senza fine, esordio nel lungometraggio di Elisabetta Sgarbi. Due pellicole dirette da due registe e tratte da testi letterari: la prima da un romanzo di Maria Ortese, il secondo da testi di Hanif Kureishi, Tahar Ben Jelloun e Amin Maalouf.
di Davide Mazzocco