Maggio assolato
Agosto 3, 2005 in il Traspiratore da Redazione
Il mese era quello di maggio, il sole quello di ferragosto. L’arsura e una specie di cappa che rendeva l’aria irrespirabile avevano costretto il giovane Antonio a rifugiarsi nella scorta di birre, saggiamente rinfrescate dall’acqua di un pozzo.
Erano ormai sei ore che zappava le terre dei Brown, quando l’orologio segnò le due e la palla di fuoco che bruciava la Terra si posizionò verticalmente sulla sua testa. Una vera mazzata, che fece stramazzare mio padre tra le zolle, privo di sensi. Stette in quella posizione un buon quarto d’ora; quando si svegliò era più sudato di un buttafuori di cento chili da osteria, più bianco delle lenzuola della regina e, soprattutto, più rincoglionito di prima.
“Ma che ci faccio in questo podere? Non è mica il mio…”
Come se lui ne avesse mai avuto uno. Ebbe comunque la prontezza di recuperare le ultime birre dallo scavo e scolarsele all’ultimo goccio.
Era ubriaco fradicio quando fece la sua entrata al Bar Napoli. Jhonny, dietro il bancone, conosceva bene i suoi clienti e capiva subito il tasso alcolico degli avventori, ancor prima che parlassero. Quella volta, in realtà, anche un cieco avrebbe riconosciuto in Antonio una sbornia della madonna.
“Ehi, Napuli – così il barista chiamava mio padre – abbiamo fatto festa oggi, eh?”
“Fatti gli affari tuoi e versami un chiaretto”, cantilenò in risposta lo stanco lavoratore.
“No Antò; per oggi hai festeggiato abbastanza. Vattene a casa e fatti un bel sonno”.
Ora, se c’era una cosa che mandava in bestia Antonio era l’essere contraddetto.
Io lo capii, a mie spese, fin da quando pronunziai la prima parola, che fu “Merda!”; il mio vecchio, infatti, non voleva sentire simili oscenità in casa sua, a meno che non uscissero dalla sua bocca. I miei sforzi di comunicazione furono così premiati con uno schiaffo sulle labbra che mi fece partire tre denti da latte. Avevo due anni.
Devo però ammettere che la reazione di mio padre in quella occasione fu uno scherzo, se paragonata a quel che successe quel pomeriggio di maggio.
Al diniego di Jhonny l’immigrato rispose con un violento urlo, che fece girare le teste degli altri quindici clienti.
“Che cosa devo sentire? – sembrava avesse un megafono incastonato tra le tonsille – Non mi vuoi versare da bere??? Tu, lurido sguattero, osi rifiutare di dare da bere a me???”
Mentre sbraitava si avvicinava sempre più al bavero del barman, impassibile e concentrato nel decifrare la prossima mossa del terrone ubriaco.
“Ma io t’ammazzo…” e, con un balzo incredibile per il suo stato alticcio, scavalcò il bancone e si sfracellò contro la specchiera.
Con la testa sanguinante e l’aria più ebete che mai, Antonio si fece raccogliere da Jhonny che, senza scomporsi, l’accompagnò all’uscita tra un coro di risa e battutacce.
“Ti mando a casa il conto del vetraio, Antò.”
“Vabbò, scusami tanto.”
Un buffone codardo, ecco cos’era mio padre. Un vigliacco, capace solo di sfogare le sue frustrazioni su di un pupo di due anni, incapace di difendersi e di offendere.
Più passano gli anni e più mi convinco che solo una persona era in grado di sopportare Antonio Gervino: mia madre, Mary Breed.
di G. Ventura