Di viole e liquirizia
Agosto 28, 2006 in Libri da Stefano Mola
Titolo: | Di viole e liquirizia |
Autore: | Nico Orengo |
Casa editrice: | Einaudi |
Prezzo: | € 15,50 |
Pagine: | 155 |
Daniel Lorenzi, sommelier parigino giunto ad Alba per tenere un corso di degustazione, separato, una figlia con problemi di droga. Amalia, donna affascinante, con una punta di selvaggio, tormentata, proprietaria dell’enoteca Tastevin (in cui Daniel terrà i corsi) insieme al fratello Giulio che verso di lei ha un morboso attaccamento. Nessuno dei due è sposato. Una cascina abbandonata, la Ginotta, dove una notte di tempesta è morto il padre di Amalia e Giulio. Un arricchito e volgare, Baravalle, che da sempre mira alla Ginotta, e forse anche ad Amalia. Un autista, Luciano, che per disgusto verso la retorica gonfiata del vino beve solo birra. Una giapponese, Maria, in viaggio di aggiornamento enologico. Uno stralunato scrittore, detto Eta Beta, con una struggente storia d’amore da raccontare.
Ecco gli ingredienti messi in tavola dal cuoco Nico Orengo, finalista con questo romanzo al Premio Campiello 2006. Il tutto si amalgama sul soffritto di colline e innaffiato abbondantemente di vino, del suo profumo, della sua storia che adesso è di ricchezza. Come sempre, della trama non ci piace dire troppo: vi basti l’elenco dei personaggi per provare ad immaginare e farvi venire delle ipotesi di curiosità da verificare riga dopo riga.
Andare in giro dentro la prosa di Orengo secondo me è come camminare con un palloncino in mano. Camminare: dunque avere i piedi ben piantati per terra, concretamente. Tra le sue parole ci sono gusti, colori, mestieri, profumi, luci, oggetti. Una presenza discreta, ma non di secondo piano. C’è la capacità di tratteggiare un ambiente o una situazione in poche righe, con nitore, senza soffocare. Il giusto dosaggio, economia di mezzi. Così si è ben consapevoli di dove si mettono i piedi, non si ha paura di inciampare. Ma al tempo stesso la materialità delle cose non ci appiattisce a terra. Perché sappiamo di avere in mano il filo, e a capo del filo un palloncino. Non è assurdo andare in giro adulti con un palloncino in mano? No, perché così ci possiamo permettere, pur con le suole in mezzo alla polvere leggera, di fare altre traiettorie, qualche volta di sbirciare in qualcosa di lievemente magico. Di mettere il naso in storie cui non puoi strictu sensu applicare l’etichetta di realismo. In questo romanzo, per esempio, c’è la comparsa a un certo punto dello scrittore Eta Beta, che funziona come una specie di palla di vetro attraverso cui guardare nelle storie d’amore dei personaggi.
Una delle chiavi di questa storia è la tirata dell’autista Luciano: No, è che io di tutta questa retorica del vino non ne posso più. Abbiamo ormai solo quello e ci costruiamo castelli di balle. E non c’è più posto per niente, per un ricordo, sembriamo tutti nati signori da quando questa non è più terra di malora […] dimenticarsela è dimenticare il dolore di tanto sangue versato. Queste sono colline di sangue, prima che di vino […]. Da quando non c’è più fatica non c’è più memoria [pag. 47-48]
In fondo il racconto di Orengo gioca attorno a tutto questo. La storia dei due fratelli, di Amalia e Giulio, della tragica morte del padre, non ha forse proprio un retrogusto di malora? Non potrebbe sembrare una trasposizione di Fenoglio, con meno miseria, certo, ma con lo stesso sottofondo tragico? Improvvisamente, in mezzo ai corsi di degustazione, ai turisti multi-lingua e multi-origine, vengono fuori inestricabili nodi di sangue e terra: la vicenda di Giulio e Amalia, quella di Daniel e la figlia.
In mezzo a quella tirata di Luciano citata in precedenza, Daniel sostiene: L’oblio serve ad andare avanti, a rimettere a posto le cose. La narrazione dimostrerà che non è così. Anzi, sarà proprio la memoria di terre, esposizioni, gusti, profumi, panorami, che permetterà a Daniel di dare una risoluzione positiva alla vicenda.
di Stefano Mola