Del perché ascoltare l’opera lirica
Ottobre 8, 2006 in Spettacoli da Stefano Mola
Antonio (Riccardo Scamarcio): Che è questo?
Lucia (Francesca Inaudi): Maria ama l’opera lirica
Antonio: Pure… C***o ma che sfiga, pure l’opera lirica, ma perché?
L’uomo perfetto, Luca Lucini, 2005
C’è chi accusa l’opera lirica di essere quella roba assurda dove qualcuno muore cantando. Se dovessi preparare un’arringa difensiva, forse partirei da Soave sia il vento (Così fan tutte, Mozart).
Così fa tutte è un teorema sulla fragilità e la volubilità dell’amore. Il matematico che lo guida è il misogino Don Alfonso (è la fede delle femmine/ come l’araba fenice/ che vi sia ciascun lo dice/ dove sia nessun lo sa). In due battute, l’antefatto. Ferrando e Guglielmo convinti ciascuno dell’incrollabile e adamantina virtù della propria amata, si lasciano trascinare da Don Alfonso a una scommessa. Fingono pertanto di partire per la guerra, lasciando ad altissimi lamenti le fidanzate, Fiordiligi e Dorabella. Di lì a poco si presenteranno sotto mentite albanesi spoglie e incroceranno il quartetto, cercando di sedurre la donna dell’altro.
Soave sia il vento è un terzetto cantato da Dorabella, Fiordiligi e Don Alfonso quando, sulla spiaggia, guardano la finta partenza di Ferrando e Guglielmo. Partiamo dal solo testo:
Soave sia il vento,
Tranquilla sia l’onda,
Ed ogni elemento
Benigno risponda
Ai nostri desir.
Fine. Con tutto l’infinito rispetto per messer Lorenzo Da Ponte, autore del libretto, non siamo nella top 10 del verso italiano. Non sono brutti: semplicemente, non è l’Infinito, né La casa dei doganieri, né qualunque altra meravigliosa poesia vi venga in mente. Se questa non fosse un’opera lirica, ma semplicemente una commedia, ci mettereste 10 secondi ad ascoltarli, forse meno, ve ne dimentichereste in 2, forse meno. Via con la scena successiva. Non sarebbe uno snodo fondamentale del testo.
Che cosa ne fa Mozart? Qui viene per me la parte più difficile. Dovrei chiamare a testimoniare un perito di parte, qualcuno che sappia di accordi, toniche, dominanti, timbri, qualcuno che mi aiuti nella mia abissale ignoranza del linguaggio musicale. In attesa di questo soccorso, non posso fare altro che provare l’impossibile: descrivere la musica. L’unica cosa che posso sperare è che anche voi abbiate il disco e lo mettiate su.
Partono gli archi “leggeri”, violini. Provate ad isolare il frammento iniziale, prima che arrivino le voci. Questa è la spina dorsale su cui si appoggerà tutto il brano. Fate questo esperimento: chiudete gli occhi, lasciatevi attraversare dalla musica e chiedetevi: dove sono? Che spazio è questo? C’è terra, oppure fuoco, oppure la volta celeste? C’è sofferenza, oppure gioia?
Secondo me, questa specie di vibrazione ciclica creata dai violini e forse anche dalle viole, vi mette in una regione intermedia. Qualcosa che abbia il potere di sollevarvi leggermente da terra. Come un tappeto volante. Non c’è sofferenza, ma neppure gioia. Forse malinconia, ma neanche troppa. Siamo dunque nell’aria, probabilmente, ma non nel paradiso. Siamo dentro di noi, ma quello che vediamo ci porta leggermente fuori da noi. La malinconia e la nostalgia sono sentimenti che dislocano, che ci scindono dal nostro presente. I nostri amori stanno partendo e non sappiamo se ritorneranno. Stiamo vedendo una scena, ma stiamo anche anticipando, immaginando. La nave prende rapidamente il largo e voi siete sulla spiaggia e la state guardando. La nave, soprattutto se a vela come qui, è qualcosa di sospeso. Sull’acqua, anche le petroliere sembrano scivolare come prive di peso.
Infatti questa cosa che qui fanno gli archi qui è come una specie di movimento liquido. Un mare lievemente increspato sotto la luce della luna potrebbe andare bene? Secondo me si. Adesso lasciate per un attimo da parte gli archi “leggeri”, sfogliate dietro. Prestate attenzione agli archi “gravi” (saranno i violoncelli e i contrabbassi o solo i contrabbassi?). Fanno un colpo cadenzato e soffice: una specie di pon, pon, pon. Se rimaniamo all’immagine dell’acqua, non potrebbe essere l’affondare ritmato dei remi nel mare? In fondo, Guglielmo e Ferrando potrebbero aver raggiunto il veliero su una barca a remi, no?
Poi partono le voci e succedono anche altre cose, tipo che intervengono i fiati a raddoppiarle qui e là, ma quanto fa di questo pezzo qualcosa di unico secondo me è questa vibrazione degli archi. Le voci ci si appoggiano su, come potrebbero far diversamente? C’è ‘sto tappeto volante, vuoi non usarlo? Non puoi, soprattutto se speri che ti possa portare verso gli amori che si allontanano.
Fiordiligi e Dorabella sembra che ci credano veramente, sembra che le loro anime escano nella voce, si sollevino nell’aria e idealmente raggiungano Guglielmo e Ferrando angelicamente. Fin qui, riconosco che potrebbero sembrare semplici farneticazioni di un ultras mozartiano. Non abbiamo ancora toccato il punto: perché vale la pena di immergersi in questa forma di espressione artistica? Soprattutto, perché questo breve trio aiuta a capirlo?
Al di là di che cosa ci suggerisce questa melodia, proviamo a concentrarci sulla sua funzione strutturale. Che cosa ci fa lì dentro? Se fosse semplicemente recitata con la parola, potremmo aspettarci che gli attori diano un accento speciale alle parole cercando di comunicare la drammaticità del momento. Come abbiamo già avuto modo di notare, non è che il testo li aiuti granché. L’abbinamento del testo alla musica permette un rallentamento del tempo narrativo, uno zoom, un approfondimento del sentimento. Disaccoppiare la durata musicale da quella testuale permette di portare in superficie quanto sta dentro la testa di Fiordiligi e Dorabella in quel momento. Ci fa pensare che le due donne ci credano veramente, che la loro anima stia veramente sollevandosi dalle loro spoglie mortali arrampicandosi nell’aria su queste note liquide (ecco di nuovo l’ultras).
Permette a posteriori di aprire spazi meditativi sull’illusione che i nostri ingannatori sentimenti allestiscono. Ci fa capire che in certi momenti crediamo davvero a cose che poi, come il resto della vicenda dimostrerà, non erano poi così vere. Ma c’è ancora una cosa importante. Fin qui abbiamo lasciato da parte che non sono solo Dorabella e Fiordiligi a cantare. C’è anche Don Alfonso. Questa è una delle prerogative che l’opera si può permettere e altre forme no: cantare insieme ha un senso, parlare contemporaneamente no.
Questa possibilità ha qui una ruolo forte. Noi spettatori sappiamo una cosa: che Don Alfonso, mentre intreccia la sua voce con quella delle due donne, non può essere sincero. È lui che ha ordito l’inganno. Ecco quindi che la scelta di Mozart assume le spoglie di una specie di avvertimento: se Don Alfonso riesce fingendo a partecipare con così tanto trasporto, non sarà che la stessa cosa potrebbe valere anche per Dorabella e Fiordiligi? Non ci starà quindi Mozart suggerendo che il sentimento è uno dei più grandi nostri auto-inganni? Soprattutto quando è così esibito, quando se ne parla così tanto (più che parlare d’amore, sarebbe bene praticarlo nei gesti quotidiani, e non fraintendete, se potete).
C’è quindi una duplice funzione: Don Alfonso deve partecipare con passione a questo struggente addio per confermare a Dorabella e Fiordiligi la drammaticità del momento, ma questo è un problema suo, sul palco. Al tempo stesso, nei nostri confronti, che siamo davanti alla della quarta invisibile parete della scena, suona una specie di campanellino d’allarme.
Una cosa che l’opera può fare (andate nel Don Giovanni per approfon
dire) è mettere in scena l’evoluzione contestuale e contemporanea del sentimento e del pensiero, grazie alla possibilità per i personaggi di essere attivi tutti insieme nel canto. Ma l’opera fa anche molto altro. Se dell’opera avete fatto uso, perseverate, non liberatevi dalla dipendenza. Se ancora non ci avete provato, fatelo: è una delle grandi invenzioni dell’umanità. Non privatevene.
Tornando a l’Uomo perfetto con cui abbiamo aperto, qualche scena dopo:
Antonio (Riccardo Scamarcio), aggirandosi per l’ufficio-casa che condivide con Simone (Giuseppe Battiston), con grande partecipazione, ispirato gli dice: E un giorno Mimì arrivò a casa sua. È malata, sta morendo, e gli chiede: mio Rodolfo, mi vuoi qui con te? E lui risponde: si, per sempre. Ma lei dice: sei il mio amore, e tutta la mia vita. E muore.
E infine, qualche altra scena dopo:
Antonio (Riccardo Scamarcio) e Maria (Gabriella Pession) camminano. Hanno appena visto la Bohéme. Antonio si stringe gli occhi, probabilmente per detergere qualche lacrima malandrina. Maria lo guarda di sottecchi, se ne accorge e gli dice:
Maria: Ti sei commosso?
Antonio: No, no, no… no è la moquette, sono un po’ allergico.
Quod erat demonstrandum.
di Stefano Mola