Lettera a un bambino mai nato
Novembre 27, 2006 in Libri da Redazione
Titolo: | Lettera a un bambino mai nato |
Autore: | Oriana Fallaci |
Casa editrice: | Rizzoli |
Prezzo: | € 5,40 |
Pagine: | 104 |
Il famosissimo libro di Oriana Fallaci, la scrittrice e giornalista recentemente scomparsa, “LETTERA A UN BAMBINO MAI NATO” è, come dice l’autrice stessa, “un libro scritto da una donna, per tutte le donne”. Si tratta del monologo, estremamente coinvolgente ed emozionante, di una donna dall’identità sconosciuta, che sappiamo essere molto impegnata in ambito lavorativo; un monologo che ha inizio palesando i numerosi e leciti interrogativi di tutte le donne nella fragile condizione della maternità. Un profondo discorso apparentemente rivolto al bambino che la donna porta in grembo, e che sa di portare dentro di sé già da prima di ogni accertamento medico, ma che si rivela essere un dialogo con se stessa, un discorso che si pone come educazione alla durezza del mondo che lo aspetta per il bambino, ma che, di fatto, non è altro che una sorta di confessione e di messa in chiaro della realtà delle cose, rivolta a se stessa.
Una descrizione assidua e ritmata, quella che ci fornisce Oriana Fallaci dello sviluppo del feto. La donna nel suo libro dà la possibilità al feto stesso di manifestare attraverso un qualsiasi cenno, un minimo movimento, il suo voler vivere o meno, quasi si volesse scrollare di dosso l’ingrato compito di decidere se portare avanti la gravidanza o rinunciare. La figura del padre è vista come quella di un estraneo che va a rompere gli equilibri che la donna ha instaurato con il SUO, solo suo, bimbo, come un uomo che non è in grado di farsi carico delle sue stesse responsabilità di uomo prima, e di padre poi.
Verso la metà del libro, una minaccia di aborto piomba forte come un macigno. L’obbligo di stare a letto per evitare complicazioni è, in un certo senso, l’obbligo alla riflessione, che si dilata a tal punto da far sì che la donna si chieda se “bastano una bollicina d’uovo e uno spermio di cinque micron a fare un essere umano” o se umani si diventa dopo, quando si è nati, perché si sta con gli altri, si mangia, si cammina, si parla, si pensa. La figura del medico che incarna la Scienza, intesa come razionalità e freddezza, si ripropone lungo il corso di tutto il libro come quella di un giudice in camice bianco; egli sputa sentenze e le rimprovera comportamenti poco responsabili, che non si confanno al ruolo di madre, della donna, la quale, firmando il foglio di uscita dall’ospedale in cui è ricoverata perché il feto è in pericolo, firma anche la presa di coscienza delle sue responsabilità. Le condizioni del feto si complicano ed ecco che nel libro, grazie alla dettagliata descrizione della scrittrice, si riproduce, quasi come se lo si sentisse veramente, il suono della voce della dottoressa che comunica la morte della speranza, poi l’immagine dell’uscita silente della donna attraverso un lungo corridoio costeggiato da “pance gonfie che si offrivano provocatorie al mio ventre piatto che chiudeva un morto”. E’ così ben rappresentata l’emozione triste di una donna che dall’essere incubatrice di vita, si ritrova ad esserne il feretro.
Da qui in poi, la descrizione di una scarica di pensieri, rappresentazione di un processo in cui la donna è l‘accusata di omicidio, e in cui il giudizio di colpevolezza da parte dell’uomo che l’ha messa incinta, pesa quanto un macigno. Alla fine del libro, già pregno di emozioni, arrivano le parole più toccanti di tutto il racconto: quelle del bambino alla madre. Sono forti, quasi fossero scritte più grandi delle atre, le parole della creatura che ringrazia la madre di avergli fatto amare la vita pur senza possederla ancora, quasi come la placenta non fosse stata per il feto fonte da cui alimentarsi, ma mezzo di trasfusione di pensieri. La morte del bambino appare come la scelta cosciente di chi sceglie di rinunciare alla vita. Le ultime parole dell’intero libro, quelle di una donna affranta, mutilata dalla perdita, e di fronte alla materialità di quel “pesciolino”, di quel “uovo grigio che galleggia in alcool rosa” estratto dal suo ventre, la rabbia della donna esplode in parole piene di dolore, di chi accusa un povero feto innocente, di essersi rassegnato troppo alla svelta e, per questo, di non essere fatto per la vita, sapendo di accusare se stessa.
di Valentina Pierucci