Le mille voci della letteratura africana
Gennaio 28, 2007 in Medley da Stefania Martini
Ad un anno dall’iniziativa “Scrittura svelata”, il Premio Grinzane Cavour ha voluto accendere i riflettori ancora una volta sulla letteratura africana: in occasione delle manifestazioni culminate con la designazione dei vincitori della XXVI edizione del Premio Grinzane Cavour, alcune scrittrici provenienti dal “continente nero” hanno messo a confronto le loro esperienze personali e il loro modo di intendere la letteratura.
In particolare il dibattito, condotto da un’attenta e partecipe Catherine Spaak, ha voluto mettere l’accento sulla condizione femminile dei paesi dell’Africa sub-sahariana dei quali le scrittrici si sono fatte rappresentanti.
La prima sofferta testimonianza l’ha portata Aminata Fofana giovane autrice proveniente dalla Guinea, ex modella, che da alcuni anni vive a Roma.
Dopo aver lasciato il villaggio sperduto nella savana nel quale è nata il giorno in cui fioriva il baobab, nella stagione del miglio, di un anno imprecisato, Aminata raggiunge Parigi ed inizia la sua carriera di modella: la sua pelle color dell’ebano, la sua bellezza esotica, le passerelle, l’attenzione degli uomini, i mille impegni che si susseguono a ritmo frenetico, le fanno ben presto dimenticare la dimensione del mondo da cui proviene. Ho sognato di essere bianca. Vedevo le mie colleghe scegliere casa e uomini, essere libere, emancipate e volevo essere come loro. In Africa nessuna donna può scegliere: a cinque anni puoi già essere promessa sposa di un uomo che neppure conosci.
Le donne africane che incontravo mi guardavano con occhi critici, avevo rinnegato le mie radici, la magia dell’Africa. Avevo smarrito la mia identità. E un giorno che ero malata, guardandomi allo specchio, ho scoperto che non sarei mai potuta essere come un’europea, il colore della mia pelle mi avrebbe segnata per sempre. Ma a quel punto non mi sentivo nemmeno più africana: non ero né carne né pesce.
Ed è stato in quel momento che è successo: una piccola piuma grigia è entrata dalla mia finestra aperta. Era un segno! Mi ha ricordato la lunga piuma grigia che mio nonno, lo sciamano del villaggio, utilizzava durante alcuni riti cui partecipavano gli uomini. Ed ho capito che non potevo più sfuggire alle mie radici, a ciò che ero: una donna africana. L’emancipazione, il raggiungimento della parità con l’uomo portano solo ad una perdita di valori: la donna, prende il peggio degli atteggiamenti maschili per arrivare a questo.
Oggi, qui in Italia, io mi sento molto più africana di molte donne che vivono in Africa, perché avevo smarrito la mia identità ma l’ho ritrovata e l’ho approfondita.
Aminata Fofana ha raccolto i ricordi della sua infanzia trascorsa nella savana, tra le capanne di legno e paglia, con il sottofondo dei ruggiti dei leoni, in un libro La luna che mi seguiva, edito da Einaudi.
Molto diversa l’esperienza di Werewere Liking, nata in Camerun, che oltre ad essere scrittrice e poetessa, ha fondato e gestisce un “villaggio creativo” in Costa d’Avorio. Si tratta di una comunità in cui i giovani provenienti da varie parti dell’Africa imparano ad essere felici, in particolare con sè stessi. Ognuno di noi, infatti, è in grado di creare l’inferno ed il paradiso, ma a ciò si arriva solo dopo aver interiorizzato i “cinque passi della stella”: la coscienza, l’emozione, i pensieri, la volontà e, di nuovo, la coscienza.
Il suo intervento, sollecitata della domande della Spaak, è stato orientato all’analisi delle conseguenze che la MODERNITA’ ha prodotto e sta producendo sulla vita dei villaggi africani. Werewere, in questo senso, si è dimostrata molto critica nei confronti di questa visione occidentale per la quale assolutamente tutti dovrebbero diventare di colpo schiavi di un cellulare o di Internet. Io scrivo per lasciare tracce ai miei figli, perché capiscano che ci sono altre vie per uscire dall’Africa. Scrivo di persone che sono felici di essere quello che sono. Scrivo per dire che 500 anni di sfruttamento, in cui l’Africa è stata privata di ogni energia, non si superano in 40 anni.
Valentina Acava Mmaka ha parlato della sua esperienza di bambina bianca che ha vissuto fino ai dieci anni in SudAfrica, il paese dell’apartheid. Il senso di essere una privilegiata, lei bianca e straniera in un mondo di uomini e donne nere che non avevano alcun diritto, la coscienza della separazione totale dei due mondi, vicini ma inavvicinabili ha segnato la sua infanzia ed è probabilmente all’origine della sua attività, quella di mediatrice e scrittrice di libri per bambini.
Le storie che racconto nei miei libri, ai bimbi dei villaggi del Kenya nei quali opero non parlano di animali feroci e di safari, gli stereotipi tipici con cui i bambini di tutto il mondo immaginano l’Africa. I racconti sono recuperati dalla tradizione orale locale e parlano dei temi che possiamo trovare dibattuti nelle nostre scuole: la pace, la guerra, il razzismo, l’ambiente, il riciclo dei materiali.
Infine, Martha Nassibou, ha presentato la sua autobiografia Memorie di una principessa etiope, nella quale racconta la sua sofferta vicenda.
Si parte dall’infanzia trascorsa ad Adis Abeba dove ha vissuto fino ai sei anni: il padre era il braccio destro dell’imperatore e la vita della famiglia si svolgeva a corte, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso.
Deportata con i suoi quattro fratelli e la madre a Roma dopo l’invasione del paese da parte delle truppe del generale Graziani (il padre morì in tale circostanza), da allora vive in Europa, ma conserva grande nostalgia per il paese del Corno d’Africa.
di Stefania Martini