Alberto Sinigaglia, ricordi su Primo Levi
Giugno 8, 2001 in il Traspiratore da Redazione
A circa quattordici anni dalla morte, ancora parzialmente misteriosa, di uno dei più letti autori del ‘900 italiano, riviviamone gesta ed emozioni attraverso le parole dell’amico Alberto Sinigaglia, profondo conoscitore ed attivo protagonista dei fermenti culturali della nostra patria dal dopoguerra ad oggi.
Tra i grandi scrittori che hanno collaborato con lei alle pagine culturali de La Stampa vi è anche stato Primo Levi. Qual è il suo ricordo di lui?
E’ per me un po’ imbarazzante parlare di Primo Levi, poiché è stato un grande amico, con il quale ho condiviso dialoghi molto dolorosi. Levi è, sicuramente, una personalità che si può definire in molti modi; potrebbe essere citato come uno dei “peccatori più dolorosi” del mondo culturale o come un “titano”, uno dei grandi monumenti religiosi del nostro secolo.
L’aver vissuto un’esperienza così drammatica, come la detenzione in un lager, lo aveva reso così schivo, disincantato, lucidamente conscio del mondo che lo circondava. Non sarebbe, probabilmente, stato un grande, un titano, senza aver vissuto questo trauma, che gli fece toccare l’inferno, spingendolo verso quello che egli avrebbe considerato l'”obbligo culturale” di denunciarlo. Tuttavia, questo suo desiderio di raccontare è stato, sempre, accompagnato dalla paura di non essere capito.
Per Primo la scrittura non aveva un valore salvifico, aveva, piuttosto, il valore di antidoto alla dimenticanza. Scrivere un racconto gli procurava il piacere di un piccolo divertimento; egli è diventato scrittore per farsi testimone, per dimostrare il coraggio di non rimuovere questa terribile esperienza, ricordandola, attraverso il senso della memoria e della scrittura. Era orgoglioso di essere testimone con la sua scrittura, un po’ come Nuto Revelli e Mario Rigoni Stern.
Molta critica e la maggior parte del potere culturale italiano lo hanno a lungo respinto, quasi relegato in un angolo, assegnandogli il ruolo prezioso di testimone, negandogli, però, a lungo l’onore di essere scrittore. Tuttavia la critica dovette tributargli un riconoscimento per le sue qualità letterarie, dopo che il capolavoro, “Se questo è un uomo”, rifiutato da Natalia Ginzburg all’Einaudi, fu pubblicato da una piccola casa editrice, guidata da Franco Antonicelli.
Primo soffriva terribilmente, in ogni modo, di questo difficile ruolo di testimone e della difficoltà nei rapporti interpersonali, che iniziarono a mutare quando, in Europa, comparvero le prime testimonianze sul lager scritte da storici e personalità straniere. Fu poi l’uscita di alcuni libri negazionisti sul lager, avvenuta in Francia ed in Germania, a suscitare in lui quell’orgoglio, che lo avrebbe portato a decidere di scrivere il suo dramma.
Qual è il suo pensiero sul suicidio di Primo?
Ritengo che l’ipotesi del suicidio sia completamente da scartare. Certo il problema di non essere ascoltato era diventato, per lui, sempre più grave e questo avrebbe anche potuto condurre allo spezzarsi del filo della salute mentale e della logica. In famiglia, infatti, vi erano stati gravi problemi di salute. A discapito della tesi sul suicidio vi è, comunque, il fatto che Levi diede, prima della morte, avvenuta il 12 aprile del 1987, segni di gran forza d’animo e di gran progettualità. Il giorno prima di morire mi telefonò, comunicandomi i titoli dei pezzi che avrebbe mandato al giornale dopo Pasqua.
Di Primo conservo il ricordo di un uomo dolce e pacato, umanamente disponibile e professionalmente molto severo con se stesso. Era l’esempio vivente del piacere del lavoro ben fatto, come testimonia il suo romanzo “La chiave a stella”; d’altronde la formazione di chimico gli ricordava sempre che l’errore di un milligrammo in una sostanza può diventare fatale.
Primo, per esempio, amava, a differenza di tanti scrittori, il computer, uno strumento che considerava amico ed al tempo stesso collaboratore, poiché gli consentiva di intercettare le ripetizioni e di tradurle efficacemente. Realizzò dei disegni sul computer: scrivendo un elzeviro sul Golem mi fece, con il computer, un disegno elementare, ma efficace. Era riuscito a scrivere “Golem” in lettere dell’alfabeto ebraico.
Il regista Francesco Rosi, che girò “La tregua”, volle consultarmi; l’attore John Turturro mi volle accanto nelle riprese del film, perché gli spiegassi come si muoveva Primo.
Nel ’95, su Radiotre, ha condotto la trasmissione “Addio al Novecento”: qual è il suo rapporto con il secolo appena passato?
Sono stato amico di intellettuali anche dell’Oriente italiano; per le mie origini veneziane sono diventato una sorte di ponte tra l’estremo Oriente e l’Occidente d’Italia. L’amicizia con Claudio Magris, per esempio, è stata anche dettata dal fatto che parte della mia famiglia è triestina.
Ho avuto la fortuna di conoscere persone che hanno dialogato con Carducci e con intellettuali della fine del secolo scorso, come Diego Valeri, Malipiero ed Aldo Palazzeschi. Così, ho sentito parlare della fine del secolo, fatto che mi rende un uomo dolorosamente moderno. La mia famiglia è, in gran parte, ebraica; molti suoi componenti hanno vissuto l’esperienza del lager, qualcuno, come un mio zio, è morto eroicamente in una fabbrica, in Brasile.
Si ricorda di lei anche un altro aneddoto, che è stato testimone di nozze di Massimo Mila. Accanto a queste grandi amicizie in campo musicale, potrebbe sintetizzare quali sono stati gli amori della sua vita?
La mia vita è, sicuramente, divisa tra alcuni amori: quello per la musica, che considero un piacere ed un’infinita capacità di raccontare in un linguaggio universale, da me amato fin dall’infanzia, quelli per la letteratura e, ovviamente, per il giornalismo, che ha suscitato in me un’attrazione fatale. Sono, da sempre, stato attratto dalla parola scritta sui giornali. Scrivere per un giornale, in particolare per un quotidiano, è come usare la Colt: il duello o si vince subito o si perde.
di Mara Martellotta