Intervista a Vig, il disegnatore di Brendon e di Mayapan
Ottobre 6, 2007 in Arte da Redazione
La tecnica, l’arte e il mestiere di un grande fumettista italiano: Joseph Viglioglia
Lo incontri, lo saluti, e lui è sempre lo stesso. Simpatico, disponibile, innamorato del suo mestiere. Per chi lo conosce da tanto tempo l’impressione non può che essere una sola:1Z1-868 Joseph non è mai cambiato. Certo, in lui ora si vede l’artista maturo, consapevole dei suoi mezzi espressivi, ma il ragazzo di un tempo è sempre lì. Abbiamo quasi dieci anni di differenza, ma il più vecchio sembro io. Da non credere.
Eppure ne ha fatta di strada il Vig, con tutta quella sua voglia di disegnare ed esprimersi in fumetto. Una strada che non deve essergli costata poco, e che sicuramente spiega la sua attuale affabilità. Un percorso che lo ha portato da uno stile grafico “nerissimo” ad un’esplosione di colori coinvolgente. Certo non per caso. Il suo mondo ora è una festa cromatica, un dialogo fatto per sfumature e non per contrasti. La stessa apertura ha anche coinvolto la qualità e la quantità dei suoi impegni. Se una volta si era quasi certi di trovarlo spesso a Torino, ora è un po’ più difficile, impegnato com’è a seguire il suo lavoro anche oltralpe, in Francia. Una sorta di ritorno, specifica lui, alle sue origini, visto che la sua città di nascita è Lione e non Torino. Ma chi non conosce quella leggenda che vede Lione, Praga e Torino collegati come vertici di un triangolo magico?
E sarà anche per l’importanza che hanno nel suo lavoro, o perché inevitabilmente si finisce sempre per notarle in un artista, ma in un dialogo con lui dopo un po’ si smetterà di guardare
70-298 altrove e si seguirà il movimento delle sue mani, elegantissimo. E intanto Joseph spiega, coinvolge con le parole, esaurendo tutte le sfumature semantiche con una proprietà di linguaggio che difficilmente si trova anche negli addetti al settore. E tutto questo cela un intelligenza che nulla lascia al caso, e che sicuramente si esprimerà in futuro con ulteriori lavori di livello.
Sebbene il famoso sceneggiatore Alan Moore, in un suo breve saggio, sottolinei che spesso le interviste si riducano ad essere mere informazioni tecniche e spuri elenchi di strumenti di lavoro, io credo che nell’approccio ad un artista questi elementi siano del tutto fondamentali. In fondo non sono interessato al momento di ispirazione, alla miccia esplosiva che creerà l’opera d’arte, ma mi affascina smontare il meccanismo, osservare i singoli pezzi, percorrere al contrario l’iter di un lavoro ben fatto. Tante volte mi sono stupito di fronte a quadri e illustrazioni per me irraggiungibili, e tante volte mi sono chiesto: “Ma come ha fatto l’artista ad ottenere quell’effetto, quell’ombra, quel particolare con una sola pennellata?”. Non è lo stesso scoprire che il dettaglio tanto ammirato è stato ottenuto con la tempera o con l’acrilico, con un pennino, un pennello, o un software. Una cosa è l’ispirazione, un’altra il mestiere e chi si inganna è fregato. Senza il mestiere, buona parte della forza di un’ispirazione rimarrebbe inespressa. E da allora ho promesso: se incontro un artista, giuro che glielo chiedo. Lo giuro. E lo faccio impazzire.
Partiamo proprio dall’inizio, Joseph, da quando il foglio è ancora bianco. Come imposti una tavola da inchiostrare?
Quando si inizia, bisogna subito sconfiggere il bianco della tavola. Ed è sicuramente meglio farlo con una mina abbastanza dura, 1H o 2H, in modo da poter pasticciare tanto, e non sporcare troppo il foglio. Appena sono abbastanza soddisfatto delle forme, vado a consolidare il disegno con una micromina 0.7, morbida, scegliendo fra dieci segni quello giusto. In molti casi incido il disegno come fosse già a pennarello, finendo già quasi tutti i particolari (l’occhio, la ciglia, ecc.).
Molti disegnatori, invece, preferiscono rifinire il disegno direttamente con la china…
È un metodo anche quello. Ma io preferisco lavorare per fasi complete. Quando inchiostro, non voglio più avere intoppi o fermarmi per capire cosa ho fatto, aggiustare un disegno, ricostruirlo. A quel punto la mia unica preoccupazione dev’essere la qualità dell’inchiostrazione e non più il disegno, e non devo più domandarmi se ho fatto bene una mano oppure no, devo esserne già sicuro.
E ti assicuro che così si risparmia anche molto tempo.
Veniamo alle dolenti note. Come fai a verificare se un disegno ti è venuto bene oppure no?
Uso lo specchio, ovviamente. È un metodo eccezionale per verificare la qualità del proprio disegno. All’inizio è spaventoso vedere gli errori che si fanno, ce ne sono tantissimi. Soprattutto nei volti frontali, in cui una metà dev’essere esattamente speculare all’altra. Lì è uno strazio, ahimè. E, comunque, per quanto ci lavori, nel corso degli anni un’a-specularità esiste sempre. Un mio difetto, in questo senso, è che tendo spesso ad ingrossare la testa da un lato (ma non ti dico quale…), poi la ribalto, mi faccio quasi una violenza e la correggo. E solo alla fine mi dico: “Sì, ecco, è meglio così”. Ma certi errori è molto difficile vederli.
Me ne sono accorto su disegni anche di grandi autori. Quelli non li puoi ribaltare ovviamente, perché a quel punto è il tuo occhio ad essere il loro specchio, ma con l’osservazione vien fuori che tendono a sproporzionare certi particolari. Anche loro…
Tuttavia l’errore può anche diventare uno stile…
Paradossalmente è così. È proprio l’errore che contraddistingue l’artista, non la precisione. Per assurdo, se un disegno fosse realizzato tutto da una macchina, sarebbe indistinguibile da quello di un altro autore. Sarebbe una matematica, preciso nei minimi dettagli, tutto proporzionato, perfetto.
Insomma, una schifezza…
Beh, non è proprio il termine che pensavo, ma diciamo che un’opera di questo tipo perde la personalità e di conseguenza anche il suo lato emotivamente importante. Un’interpretazione personalizzata della realtà è sempre distorta, e ciò la rende interessante. I cosiddetti “autori fotografici”, come gli iperrealisti, sono molto difficili da distinguere uno dall’altro. E non può essere altrimenti visto che il loro intento non è quello di mettere in luce la loro personalità, ma di sottolineare l’oggettivazione della realtà.
L’intervista continua…
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Intervista a Joseph Viglioglia parte seconda: Vig ed il disegno
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di Davide Greco