Chiamatemi Benedetta
Agosto 15, 2008 in Racconti da Redazione
Quel giorno la macchina si è rotta. Un guasto al motore. Almeno credo. Ho solo una certezza nella vita: non sono un meccanico.
Una volta era diverso. Una volta c’era Dio, con me. Quella era la mia seconda certezza. Ora sto camminando per le vie della perdizione.
Guardatemi. Tutto in rosa. Come un grande confetto. In testa, una parrucca che nemmeno Platinette.
No, non sono una Drag Queen. Anche se i miei fedeli, la domenica mattina, gridano allo scandalo.
Cercano di farmi perdere il posto, cercano di sostituirmi. Ma non sanno come fare.
Non era mai successo prima.
Perché lo sapete tutti chi sono. In giro circolano delle mie foto strane. Con il cappuccio in testa, come il tipo di Guerre Stellari.
Gli episodi nuovi, però. O più vecchi, a seconda da dove si guardi la saga. Insomma, quelli dove George Lucas è pieno di soldi e ne vuole ancora di più.
Sì. Sono io. Il Papa. Benedetto sedicesimo.
E pensare che ne dicevo, di stronzate.
E rimettiamo la messa in latino. E il decalogo per il perfetto guidatore. Una soluzione per l’aids? Astinenza dal sesso. Guardatevi da internet, che è il diavolo.
Mancava poco che sparassi a zero contro i forni a microonde o i cellulari.
Ero giovane e stupido. Questo molto prima che circolassi con Solange e il Mago Othelma. Molto, molto, prima.
Quel giorno la macchina si è rotta. Un guasto al motore. Almeno credo. Ho solo una certezza nella vita: non sono un meccanico.
Sono il papa. E giro con la papa-mobile. Che fa proprio ridere.
Sono come i supereroi. Mi manca solo l’alabarda spaziale.
Dovevo andare non so bene dove e non so bene a fare cosa. Probabilmente a sentire le preghiere dei poveracci, a fare ciaociao con la mano e via discorrendo. I soliti impegni papali, insomma.
Ma, ripeto per la terza volta – non fateci caso, sono vecchio, tendo a ripetermi – la macchina si è rotta.
Mi hanno scaricato, tutti spaventati, in un retrobottega di un bar. Che stavamo lontani da casa, non avevamo amicizie influenti e non sapevano che fare di me. D’altra parte non servivo proprio a niente. Perché non sono mica un meccanico, io.
Una stanza misera. Di quelle con i calendari delle donne nude sulle pareti. E poi un sacco di scritte tipo “Ale e anto tre metri sopra il cielo”, “Biba ti amo”, “Okkio ai totani”.
E’ più difficile capire il significato di ‘sta roba che delle parabole. Tipo quella del fico.
Adesso vi spiego. Gesù ha fame. Circola con i fedeli, non ce la fa più, non ha nemmeno un Kinder Bueno o una Fiesta o un Ferrero Rocher. Niente di niente.
A un tratto, vede il fico. Povero fico. Non ha un frutto. Nemmeno uno. E ci credo: non è stagione.
Gesù si arrabbia talmente da maledirlo.
Da allora il fico è l’albero maledetto. Capite? Non è che il figlio di Dio possa andare a maledire le cose come niente fosse. Che poi uno rimane con la nomea nei secoli dei secoli.
Ma ditemi un po’. Il fico che colpa aveva? Cos’ha fatto?
Quando me lo chiedono, faccio finta di essere sordo. Oppure sfodero il mio miglior tedesco. E faccio il segno della pace. Funziona sempre.
Stavo seduto, senza guardare, nascosto al buio di quel locale. Accanto a me, una radio. Mi sentivo così solo. Così sperduto. Così inutile. Così poco meccanico.
Accendo la radio. Giro la manopola. La cerco. Chi? Ma è ovvio!! Radio Maria.
Lei si sente ovunque. Ovunque, dico. Persino quando mi hanno portato alla visita di cortesia coi russi, che mi han fatto andare nei sommergibili. Sìsì, con i vestiti da Papamarinaio, certo. Tanto io ho abiti per tutte le occasioni. Sono un uomo di mondo. Già.
Lì, ventimila leghe sotto ai mari, Radio Maria si sentiva. Tutti a dire che non era possibile.
Ma io sono Benedetto Sedicesimo. E mi piace scriverlo tutto intero, non con i numeri: sedicesimo.
Radio Maria è la mia stella. La mia guida. La mia fede.
Avete già capito. State sorridendo. Come dite?
Ah, è per via delle scarpe. Vi piacciono? Hanno venti centimetri di tacco. O di zeppa, come dicono i giovani. Me l’ha consigliate Giucas. Giucas Casella. Lui si veste così bene, sapete?
In quel bar. Con la puzza di piscio che usciva dagli angoli. Con tutto che c’era anche il bagno. Però il bagno sapeva di pulito. Pulitissimo. Erano gli angoli, il problema.
In quel bar. Con il rumore del calcetto che rompeva l’anima e so che non posso dire queste cose ma quando ci vuole, ci vuole.
In quel bar. Il segnale era muto. Fruscii. Falsi contatti. Voci sovrapposte. Ma lei – Maria, dico – non c’era. Svanita.
Potete anche solo immaginare cosa può provare il Papa a non trovare più Radio Maria? Soprattutto questo papa qui. Questo povero vecchietto tedesco che avete davanti ai vostri occhi.
Lasciate perdere ora. Mica parlo di me. Di Benedetta.
Parlo del vecchio me. Sempre lui. Sempre Benedetto Sedicesimo.
Benedetta avrebbe riso e ballato. Magari su “It’s raining man”. Meravigliosa.
La facciamo sempre, ai nostri party. Una volta anche Fabio Canino mi ha invitato al suo programma e l’ho ballata nudo sul tavolo. Cioè, prima ero vestito, poi mi sono spogliato. Sì, lo so. È storia vecchia. Ne hanno parlato tutti quanti. Però, che bello che è stato.
Di cosa stavamo parlando? Come dite? Della mia disperazione? Quale disperazione?
AAAH! Dimenticavo. Scusate, è che mi stavo mettendo lo smalto per le unghie. Vi piace? Guardate qui: ho pure le stelline disegnate di nero. Belle, vero? Queste me le ha fatte Gabriella Carlucci.
Se conosco Loredana Bertè??? Ma è naturale!!! Vedi questo? Quest’orecchino! Con la faccia di Gesù. Ecco, è un suo regalo. Splendida, Loredana.
Ma qui dobbiamo parlare del bar, di radio Maria e via discorrendo! Smettetela di farmi divagare! Su, tesori miei, dopo spettegoliamo un po’, ora seri.
In quel bar, mi sono sentito svuotato. Mentre dall’altra stanza urlavano “Goool”, dopo le ennesime rullate. Che ci so giocare anche io a calcetto, cosa credete. Rullavo che era una meraviglia. E mi cacciavano dalla squadra, perchè non era consentito.
E così, non sapendo più che cosa fare, ho preso i voti. Gli altri giocavano a calcetto ed io a pregare. Ma che alternativa avevo?
In quel bar. Non ho potuto fare altro che pensare. Guardando le mosche morte sul pavimento. E i resti di un panino lasciato vicino al televisore.
La tv. Potevo sempre guardate la rete cristiana. Quella tutta Alleluia, sia lodato il signore!
Era divertente. Ed un diversivo. Massì. Vada per la tv cristiana.
Peccato che la tv del bar non avesse l’antenna. Prendeva la solite cose: rai uno – male – e canale cinque. A cercar bene, anche italia uno. Ma lì era tutta roba per perversi. Mica mi piaceva.
Come i vecchi. Come i pensionati. Quelli che passano la loro giornata seduti su una sedia, a guardar le macchine che passano. O i treni. Stavo lì, con il telecomando in mano. A fare zapping. Ed un tratto, lo vidi.
Su Emmetivu. Credo si dica così. Su Emmetivu davano la musica. Dei video strani. Era uno speciale sugli anni ottanta. Io negli anni ottanta non ricordo nemmeno dove fossi.
Scialpi cantava Baciami qui. Ether Parisi imperversava con cicale cicale. Claudio Cecchetto faceva lo scemo con Gioca Jouer (e con lui, altri milioni di italiani).
Tutti i video, uno dietro l’altro. Camerini con Rock’n’ roll Robot. Jo Squillo. Raffaella Carrà.
Poi, lui. Un omino. Piccolo. Con gli occhiali. Grandi. Una camicia gialla.
Non era vestito anni ottanta. Sembrava venire dal futuro. O dal passato, chi può dirlo.
Aveva una vocina. Minuscola. Un po’ stonata. Per l’emozione. E cantava l’amore. Per Antonella. Che non sapevo chi fosse ma doveva essere splendida.
Ascoltavo.
Il bar, l’odore di piscio, il calendario delle donne nude, i rullatori al calcetto. Tutto sparito.
Solo io.
La tonaca bianca.
Il mio non essere meccanico.
E lui. Con Antonella.
“Antonella sei una stella ma…/ le stelle non vivono qua… /ma in cielo! /Per guardare la terra come appare/ Finché quaggiù brilleranno…. stelle… grandi… come te…. “
Qualcosa lì è successo. Con quella voce celestiale. Quelle parole, così dolci e disperate insieme.
Qualcosa è accaduto.
Un fascio di luce è sceso dal cielo. Un coro di angeli ha accompagnato lui, il misterioso omino piccolino dagli occhiali grandi grandi.
I miei occhi hanno iniziato a lacrimare. Anzi, quello sinistro. Il destro si è semplicemente appannato, andando momentaneamente in sciopero. E, cieco com’ero, ho visto. Un essere. Sempre con gli occhiali. Sempre piccolo piccolo. Ma lo conoscevo, io, quello. Era in mezzo ad una tribù di neri. In Africa. Che non so perché fossi stato tanto sicuro, ma era l’Africa. Avrei potuto giurarlo. L’essere occhialuto distribuiva cibo. Si è girato verso di me. Verso l’occhio ancestrale. Era Don Mazzi. Sorrideva. “Ora conosci la verità, oh ingenuo fratello”. Così, mi ha detto. Sorridendo. Ed anche i neri sorridevano. A me, al papa. Ingenuo fratello.
Poi tutto è sparito. Rimaneva la musica. Quella flebile voce. E la mia estasi. La visione continuava. Ma tutto appariva sbiadito. Dal mio occhio lacrimante potevo scorgere solo dei colori. Il Bianco. Il Celeste. Niente altro. Mi sono concentrato. Era una maglietta. Bianca e celeste. In mezzo, era disegnata un’aquila.
Suor Paola. Con la maglietta della Lazio. Che insegnava a giocare a calcio a dei bambini. In Cile. Anche qui, non so perché fossi tanto sicuro che si trattasse dell’America Latina. Ma tant’è. Questa è la mia visione, mica la vostra!! Suor Paola ha corso, ha segnato un rigore ed ha gridato: “Che Michele Serio sia con te!”.
Come in guerre stellari.
Un altro urlo mi stava riportando alla realtà. Una donna. “Ha visto la luce!! Fratello, hai visto la luce??!!”. Era esaltata, più di me.
Non ho potuto fare altro che saltare. Togliere il copricapo papale e iniziare a fare capriole.
Con tutti che urlavano, gridavano di gioia, battevano le mani.
La luce. Altro che Dio, la madonna vergine e il san Giuseppe martire. Altro che fedeli, pecorelle smarrite e peccati capitali. Altro che chiese, vaticano, astinenza, e by-pass infernali. Avevo ritrovato la strada. Dio, quello vero però, mi aveva cercato. Chiamato a sé.
Chiamatelo Michele Serio. A lui. A Dio.
Invece, a me, chiamatemi solo Benedetta. Questo il nome che ho sentito spurgare dal profondo me stesso. Una nuova vita era in me.
E non sapevo nemmeno come mai. Quello che posso dirvi è che ho iniziato ad odiare tutto ciò che era normale. Messe, encicliche, prediche, discorsi in piazza. Manco fossi Mussolini.
Io volevo andare a ballare! Volevo fare il deejay nelle discoteche alla moda. Volevo seguire Vladimir Luxuria nelle sue bricconcellate.
E invece no. I preti e il meccanico sono entrati. Hanno visto questa massa di individui urlanti.
Hanno pensato che mi stessero facendo del male. Tipo che erano atei o che so io.
E poi hanno visto me. Con l’occhio destro appannato. Quello sinistro lacrimante. Con ancora l’Africa e l’America che si riflettevano nello sguardo vacuo. Ed io lì. A ballare. Con una sciarpa rosa in mano. Una sciarpa rosa venuta dal cielo. Scesa insieme al raggio di luce.
Quella che ho addosso ora. Bella, vero? Altro che la tonaca di una volta. Sfarzosa, eh, per carità, ma così poco chic!
Come dite? Inizia il film? Cosa guardate? Oooooh! Priscilla nel deserto!
Posso venire anche io? Grazie, tesori. Il mio racconto può aspettare.
di Alice Suella