La Clemenza di Vick
Maggio 19, 2008 in Spettacoli da Stefano Mola
La clemenza di Tito, ovvero: uno pensa di andare al Teatro Regio e vedere solo una storia di pepli e imperatori, e invece. A sipario ancora chiuso rileggevo la trama e mi dicevo: ma è un dramma borghese. Il primo motore della faccenda è Vecellia. Respinta da Tito, si concede all’adorante e cieco Sesto. O meglio, lo manipola dall’alto del suo potere. La sostanza del suo discorso è: mi vuoi? Eliminalo, senza far troppa flanella. Vecellia ama Tito? No, e le sue parole ne sono testimonianza:
che m’ingannò, che mi sedusse,
(e questo è il suo fallo maggior)
quasi ad amarlo.
(quel quasi è sublime). Semplicemente Vecellia non può sopportare lo smacco. Il tutto, come spesso nei grandi meccanismi che raccontano storie, attualissimo (e qui la cronaca quotidiana ci fornisce mille esempi su cui fare un calco della vicenda).
Primo salto nell’analisi di cosa ha fato Graham Vick. Mettere tutto in costumi anni 20 è perfetto. Quello che succede tra Vecellia e Sesto non è inchiodato ai tempi del Colosseo. Sono cose che la cronaca ci sbatte in faccia tutti i giorni. È una delle tante facce dell’imperfezione dell’amore, o meglio, del pozzo oscuro che si nasconde dietro l’attrazione. Questa aura di sentimento un po’ decadente (D’Annunzio? Moravia? O semplicemente un noir?) sta bene vestito modello Charleston. Davanti ci divertiamo e sembriamo leggeri; dietro, il vuoto etico, la morbosità. Orizzonti ideali azzerati. Né in Sesto, né in Vecellia c’è il minimo orizzonte politico. Potrebbe essere ai giorni nostri, ma come la mettiamo con un imperatore? Risaliamo allora finché ne troviamo un surrogato: le dittature di inizio secolo.
Aver mantenuto la scena fissa, una gran sala ovale con sedie e poltrone e arredi che richiamano la romanità, ma rivista attraverso gli occhi del nostro ventennio, ci sta. È un dramma di interni, di passioni sbilanciate e/o soffocate. Claustrofobico, da questo punto di vista: dunque un ambiente solo ci sta bene. L’incendio del Campidoglio è solo uno sfondo che si scorge attraverso una porta finestra, quasi come un caminetto. Tanto il nodo non è lì, non è nei moti di piazza, ma nei neri grovigli aggrovigliati dei cuori.
Altro aspetto su cui si vede un gran lavoro di regia è nei movimenti, nell’allontanarsi, avvicinarsi, sfiorarsi, toccarsi, respingersi dei personaggi. C’è una grande tensione scenica, che i cantanti assecondano benissimo. Soprattutto nel primo atto, dove sostanzialmente succede tutto, c’è una notevole dinamicità drammatica e aver mantenuto i recitativi quasi integrali mi è sembrata una scelta azzeccata. Nella regia di Vick, diventano teatro puro, e non solo quella cosa che bisogna sopportare prima che ricominci la musica.
Un esempio è la posizione che assumono i personaggi nel momento in cui Sesto attacca la dolente ma in fondo tenera Parto, ma tu ben mio. Vecellia è a terra, languidamente abbandonata; Sesto le è cavalcioni. Vick mette l’accento sull’unica cosa che può intercorrere tra i due: ovvero, sesso. Vecellia non ama Sesto, lo usa e basta. Sesto è sostanzialmente accecato, e infatti alla fine della stessa aria dice: Ah qual poter, oh Dei!/Donaste alla beltà.
Soprattutto, Sesto non potrà mai avere la testa di Vecellia, il suo coinvolgimento emotivo. In uno dei momenti più drammatici, quando Sesto si dichiara pronto a ogni cosa, a Vecellia che spazientita gli fa Ebben, che più s’attende? non può fare a meno di replicare, come un fidanzatino di Peynet: Un dolce sguardo almeno/Sia premio alla mia fe!. (Sesto, ragazzo mio, spiace dirlo ma non hai capito proprio niente).
Il secondo motore è Tito. Uomo che lascia perplessi. La prima domanda che fa venire in mente è: Tito, ama? Mah, il suo mi sembra in primo luogo un problema di immagine. Berenice? Magari sì, però è straniera, e che diranno i romani? Ma no, allora no. Allora Servilia. Epperò Servilia mi dice che ama Annio. Quanto è tenera e onesta, Servilia, avercene! Va’, Servilia, sposa Annio. Sì però, e io? Eppure, donne a Roma ce n’è. C’era quella, com’è già che si chiama? Ah sì, Vecellia. Insomma, un po’ come Sarkozy che lasciato da Cecilià in quattro e quattr’otto si sposa la Carlabruni.
Che ti viene da dirgli, ma benedetto ragazzo, se tanto una vale l’altra, non potevi far contenta Vecellia da subito, che si capiva lontano un miglio che era suscettibile, e ci si risparmiava tutto quel casino? E cosa c’è stato tra Tito e Vecellia prima? Io propendo per la teoria che Tito alla fine non sia poi così interessato alle donne (forse perché, vedi sotto, non è nemmeno umano), e che Vecellia si sia inviperita solo perché lui non le è caduto ai piedi come una pera matura, accecato dalla sola bellezza. Come Sesto. Che infatti cade e dunque poco le interessa.
Tito però sa che l’uomo di stato ha da essere uomo, e dunque non si può presentare al popolo senza una donna al suo fianco (né allora, né ora; e torniamo a Sarkozy). Che poi ci vuole un attimo e le voci corrono.
Ma quali voci? E qui, tanto per immergersi a pieni mani nel paparazzismo, io dico che il legame tra Tito e Sesto mica è tanto chiaro. L’unica cosa che davvero sconvolge Tito non è che Roma brucia nella congiura e danni che poi l’erario ti voglio vedere, e ci si immagina cadaveri come mosche. No. Quello che lo spezza in due è il tradimento di Sesto:
E puoi creder Sesto infedele?
Io dal mio core il suo misuro
e un impossibil parmi
ch’egli m’abbia tradito
Sarà che a pensar male si fa in fretta, ma qui torno alle scelte di Vick. Quando Tito e Sesto si confrontano e Sesto ammette il suo tradimento ma non dice che l’ha fatto perché desidera Vecellia sopra ogni cosa, Vick piazza due sedie accostate vicinissime, tanto che Tito e Sesto non possono non toccarsi, anzi, finiscono quasi per intrecciarsi. L’ambiguità è a due centimetri. E qui ci arrestiamo, che prove provate non ce ne sono.
L’altra domanda che viene subito dopo è: Tito, è umano? Non interagisce realmente con nessuno, se si esclude la sua liason con Sesto. La sua clemenza è talmente iperuranica che il dubbio è legittimo. Viene esercitata indiscriminatamente, erga omnes: eppure non sembra capace di incidere in modo educativo e/o politico. Anche qui ricorro a Vick. Tito è vestito come un principe da operetta, ma spesso la scena è attraversata di corsa da comparse che sono indubitabilmente squadristi, e si intuisce che facciano qui e là cose poco gentili. Tito ne è consapevole e/o mandante? Quando gli presentano una lista di persone che hanno oltraggiati imperatori passati e/o presenti, la reazione è sempre la stessa: un-due-tre-per-me-libera-tutti.
Nel libretto non c’è traccia di Tito oppressore (visti i tempi di composizione, e visto l’uso che è stato fatto di questo dramma, rappresentato spesso a contorno di incoronazioni). Allora perché Vick mette il jogging delle camice nere? A me fa pensare questo: che la clemenza, se sparsa a piene mani, diventa trasparente, legittima lo status quo. Regime era, e regime rimane, anche se c’è Tito.
Che Tito non sia educativo lo si vede anche dalla scena del primo atto in cui Vick fa deporre in un vaso di vetro gioielli dalla borghesia presente in salotto, per beneficienza (citazione credo dalla donazione delle fedi, sempre in diretta dal ventennio). A un certo punto si capisce che forse non servono più, allora tutti indegnamente fanno una mossa verso il vaso, con la poco velata velleità di recupero del gio
ellame, ma alla fine il vaso viene portato via, con scorno dei presenti.
Paradossalmente, Tito è troppo perfetto rispetto a tutti gli altri. La clemenza di Tito rimanda a una dimensione divina. Nel secondo atto il popolo si stringe a lui e coorti di bambini lo abbracciano. Divina perché ultraterrena, non informando con azione diretta di sé le persone e lo stato. Non è un caso forse che il finale dell’opera sia in un certo senso aperto: sappiamo di un perdono totale e assoluto, ma nulla della storia seguente dei personaggi. Nulla viene ricomposto: Sesto e Vecellia si ameranno? E Tito, troverà qualcuno da mettere al suo fianco? Non lo sappiamo.
C’è qualcuno che si salva? Uomini, no (tanto per cambiare). Non Annio, che del suo puro amore nulla osa dire a Tito. Servilia sì: nonostante abbia la possibilità di diventare first lady, espone con coraggio pubblico il suo amore privato, vivendo nonostante tutto conseguentemente al sentimento (le perdoniamo la piccola vendetta che si prende su Vecellia: del resto, quest’ultima se lo merita).
A conclusione dell’analisi del testo e dell’allestimento, viene da dire che spesso le storie apparentemente imperfette sono le più feconde di riflessioni e domande. Del resto, nella vita esistono storie perfette?
Ma la musica? Carmela Remigio non solo è una Vecellia teatralmente perfida, languida e decadente, ma ci regala anche una voce da incanto. Le tremende lacerazioni interiori di Sesto sono rese con grande pathos da Monica Bacelli. Giuseppe Filianoti ci dà un Tito dallo sguardo spesso stralunato e in linea con l’idea del personaggio che abbiamo descritto. La sua voce ci è parsa bella e sicura. Del tutto all’altezza dei tre appena nominati Rachel Harnisch (Servilia), Daniela Pini (Annio) e Simón Orfila (Publio). La direzione del maestro Roberto Abbado ci è parsa mozartianamente energica e convinta, drammatica il giusto. Un plauso ancora una volta al Coro, diretto come sempre da Claudio Marino Moretti.
Un altro spettacolo decisamente di alto livello.
di Stefano Mola