Professione jazzista!
Giugno 24, 2008 in Musica da Claris
Ero incuriosito, lo ammetto, perché il direttore artistico Nicolas Gilliet, presentando la 24a edizione del JazzAscona festival, aveva indicato tra le potenziali sorprese di quest’anno il quartetto di Attilio Troiano e Roberto Pistolesi, giovani, ma già profondi conoscitori del genere. Per questo l’altra sera, al palco Imbarcadero, ero in prima fila ad ascoltare questi ragazzi italiani e, dopo i tanti applausi del pubblico presente, più entusiasta che sorpreso, è stato un piacere interagire con la loro verve, scoprire la loro viscerale passione per la musica.
Come vi siete conosciuti?
A Roma, al Gregory’s Jazz Club, sei anni fa. Attilio cantava e scriveva arrangiamenti per orchestre jazz, io suonavo la batteria. Da allora siamo diventati amici e abbiamo fondato l’Amazing Quartet con Michele Di Martino e Tommaso Scannapieco.
Quanto conta l’amicizia in una band?
Tantissimo, la sintonia e la passione comune portano a superare ogni difficoltà. Attilio è un vulcano di idee, di progetti. E’ molto raro, in Italia, trovare musicisti che sappiano andare oltre la semplice esibizione con il proprio gruppo, organizzino eventi e si inventino collaborazioni. Attilio invece fa tutto questo: ad esempio, ha organizzato un festival jazz nella sua Basilicata, il BasiliJazz festival, tra Beralda, sua città natale, e Matera.
Attilio, tu scrivi anche musica, vero?
Sì, penso che scrivere sia un dono. Quando hai delle idee, senti dentro di te il dovere travolgente di tradurle in qualcosa di concreto, da condividere e diffondere. Io interpreto la musica come esasperazione dell’emozione, come era negli anni ’50, mentre adesso, in molte occasioni, sembra che non si suoni più per il semplice piacere di fare musica. Alcuni mi criticano, dicendo che sono troppo idealista, ma io vivo il jazz in questa maniera. Non suono per esaltare il mio ego, ma per ottenere un risultato armonico di gruppo. L’insegnamento dei grandi jazzisti tradizionali del passato, da Louis Armstrong a Bix Beiderbecke, è il rispetto degli altri, l’apertura al dialogo e alla comunicazione reciproca, l’elasticità per apprendere sempre qualcosa di nuovo. Questa è la vera meraviglia del Jazz: l’annullamento di se stessi per l’esaltazione delle performance di gruppo.
Una jam session che ricordi con piacere…
Tra le collaborazioni più belle di sempre, cito quella dell’anno scorso con John Allred. Non ci conoscevamo, ma un feeling particolare ci ha immediatamente legati. Nonostante le difficoltà di far coesistere i nostri due strumenti (io suonavo il sax tenore e lui il trombone), ci ascoltavamo e univamo le nostre energie. Il risultato è stato un dialogo musicale molto intenso e l’inizio di una forte amicizia.
Com’è nata la vostra passione per il jazz?
Entrambi abbiamo un background di musica classica. Roberto, che è un violinista mancato, ha iniziato a suonare la batteria per repulsione alla rigidità del conservatorio. Io mi sono diplomato in clarinetto nel 2001, per poi dedicarmi solo al jazz. La scelta di farne una professione è stata spontanea, ma non agevole per nessuno dei due, ma la nostra comune passione per il ritmo e lo swing si esprime solo con il jazz. Siamo consci che, soprattutto in Italia, fare i jazzisti di professione non è facile, perché ci sono tanti pregiudizi vero questo tipo di musica, bollata come incomprensibile da tanti media che influenzano i giovani. Invece il jazz tradizionale contiene al suo interno molta più semplicità di espressione, volontà di farsi capire, spensieratezza e divertimento di tanto musica moderna. Il miglior modo per rendersene conto è passeggiare ad Ascona sul lungolago durante il periodo del Festival, dove si respira un clima di convivialità ed un desiderio di conoscersi quasi magico.
di Claudio Arissone