Recensendo l’Italiana in Algeri
Marzo 10, 2009 in Spettacoli da Stefano Mola
Che spettacolo è, l’Italiana in Algeri che ha debuttato al Regio Mercoledì 4 Marzo? Con Rossini non è mica facile. Non solo per i cantanti, che sembrano sempre costretti a correre su scale mobili in contromano, e a fare una fatica bestiale solo per tenersi in quota. Anche per l’allestimento non è per nulla banale.
Tanto per iniziare, la trama. Il primo atto ancora tiene, tutto sommato. Il secondo è esile assai, e la mitica farsa del Pappataci (scappiamo, scappiamo, che il Mustafà mangia) non è che sia molto credibile (pur prestandosi a un interessante outlook sociologico sull’Italia, che, ricordiamolo, a quel tempo ancora era da fare).
In secondo luogo, bisogna gestire quella cosa tutta rossiniana della desemantizzazione. Ovvero, a un certo punto le parole si stiracchiano, con le vocali infinite; oppure si spezzettano in sillabe. Rossini sceglie di farne quel che vuole, asservendole totalmente ai suoi scopi musicali. Iniziamo con un senso, e finiamo in una regione lontana, dove l’orecchio trasporta la mente nel sublime, senza appesantirsi con la valigia del senso.
Difficile dire se ciò accada perché Gioacchino credeva nella superiorità assoluta della musica, oppure per cinismo e disincanto: della vita non capiremo mai niente, siamo marionette del caso, inutile esprimere un significato, contentiamoci del bello (quando c’è). Oppure semplicemente perché gli davano dei libretti scadenti.
Si potrebbero passare ore a fare ipotesi, e menti più qualificate della mia hanno elaborato teorie migliori. In ogni caso, tornando all’allestimento, c’è il grande problema di che cosa far succedere quando partono questi vertiginosi fuochi d’artificio vocali. È una cosa assai diversa dal gestire la classica aria dove si esprime un sentimento ben definito, e ci sta che uno stia semplicemente fermo a raccontarci i casi suoi. Nel caso di Rossini saltiamo su un altro piano, bisogna porsi delle domande tipo: facciamo muovere cose e/o persone al ritmo della musica, col rischio di creare confusione? Oppure imbalsamiamo, e creiamo straniamento?
Per nulla banale, quindi. Che cosa hanno fatto Vittorio Borrelli, regista, e Claudia Boasso, responsabile delle scene? A mio modo di vedere, una giusta (e assai riuscita) via di mezzo. Sia dal punto di vista dei movimenti sul palco, che da quello dell’ambientazione.
Il finale del primo atto, per esempio, dove il prevalere del suono sul senso tocca il suo apice turbinoso. Ci sono movimenti, mossette tipo danza, ma niente di esagerato. Si capisce bene che tutti sono travolti e non ci capiscono nulla, ma si sta ben al di qua di una perdizione dionisiaca. E il lancio di cuscini finale che seppellisce i protagonisti esausti m’è sembrata una buona idea, simbolica senza essere troppo lambiccata e cerebrale.
Cose così, ce ne sono molte. M’è sembrata una regia giocata sui dettagli. Il ferro da stiro brandito da Elvira nel primo atto a difesa di Mustafà. L’ingresso di Lindoro che spinge un modernissimo carrello per le pulizie: eppure ci sono turbanti e costumi in linea con quanto ci si aspetta nel nostro immaginario. Piccoli tocchi di attuale che non disturbano, fanno sorridere, ci dicono che siamo a teatro, ma che non vogliono calcare la mano, senza imporre un ego registico a travolgere la vicenda.
A questo aggiungiamo anche l’estrema leggerezza dei cambi di scena. Pannelli leggerissimi con decorazioni arabeggianti vengono spostati o calano dall’alto, e in un attimo, con pochi accenni, siamo in un palazzo, o in riva al mare, o in una sauna, in una sala da caffé. Dal fondale occhieggia ora una luna, ora un sole. Sono come suggerimenti per la fantasia di chi guarda, e del resto basta poco all’immaginazione per costruire il resto.
Veniamo alla musica. La direzione del maestro Bruno Campanella è stata anch’essa all’insegna della leggerezza, come a voler sottolineare prima di tutto i fremiti malinconici che scorrono dietro e a lato dei famosissimi crescendo. Se Rossini è follia organizzata, e se la follia è un senso di dislocazione, una ribellione talora impotente, ci è sembrata questa una lettura del tutto legittima e assai raffinata.
Quanto alla compagnia di canto, vorremmo dare i nostri personali oscar, per la migliore interpretazione maschile e femminile. Tra le donne, la più convincente ci è sembrata l’Elvira della giovane soprano Carla Di Censo, per l’impressione di freschezza cristallina che ci ha lasciato la sua voce. Tra i maschi invece ci ha assai convinto il Taddeo di Roberto De Candia, sia per l’interpretazione sicura e precisa, sia per la perfetta aderenza al ruolo di gabbato cicisbeo. Menzioni d’onore anche per il Mustafà di Lorenzo Ragazzo, un bey buffo il giusto. L’Isabella di Vivica Genaux ci è piaciuta nei ricami, meno nei momenti in cui forse ci saremmo aspettati un dominio vocale della scena. Malinconico il giusto e senza sbavature il Lindoro di Antonino Siragusa.
di Stefano Mola