Conta le stelle, se puoi
Agosto 13, 2009 in Libri da Stefano Mola
Titolo: | Conta le stelle, se puoi |
Autore: | Elena Loewenthal |
Casa editrice: | Einaudi |
Prezzo: | € 17,50 |
Pagine: | 257 |
Prima di parlare di questo romanzo, con cui Elena Loewenthal è approdata alla cinquina del Premio Campiello 2009, sono forse necessarie alcune dichiarazioni di orientamento. Per onestà, per far capire da che retroterra parte chi scrive (una cosa un po’ come quella che fa il manifesto, il giornale, quando mette, sotto il titolo, quotidiano comunista).
Prima di tutto dirò che non sono di religione ebraica, ho avuto una formazione cattolica (e forse adesso non sto da nessuna parte, ma questo importa meno). Eppure fin da piccolo credo di essere stato in un modo che non saprei dire se non così: dalla parte degli ebrei. E ho per Primo Levi una reverenza assoluta, per la lucidità incredibile con cui ha saputo affrontare l’orrore assoluto.
Inoltre, più passa il tempo e più mi piacciono le storie familiari (cose del tipo Pastorale americana di Philip Roth, oppure Le correzioni di Johnathan Franzen). Non è che si scopra una grande novità: la famiglia è sempre stata una grande generatrice di trama, essendo una trama essa stessa, una trama che spesso si fatica a capire, con cui a volte si riesce a fare i conti e altre no, con tutto quell’intricato miscuglio di resta e lasciami andare, di sono io ma anche siamo noi che si porta dietro.
Detto questo, non mi è difficile dire che Conta le stelle, se puoi mi è piaciuto molto. Mi viene da accostarlo a un film che ho molto amato, ovvero Train de vie. Entrambi infatti raccontano l’olocausto senza raccontarlo. Train de vie con quello struggente salto mortale finale: dopo averci fatto ridere per tutto il tempo, si chiude con un deportato che ci guarda da dietro il filo spinato, e che ci conferma quello che sapevamo fin dall’inizio del film, e che forse non avevamo il coraggio di dirci: che il treno altro non era che un sogno che forse non c’era stata nemmeno la forza di sognare davvero (e già che ci sono aggiungo che invece La vita è bella, dell’olocausto, non racconta proprio un bel niente).
Anche nel romanzo di Elena Loewenthal c’è un salto mortale, solo che avviene ben prima della fine. Il salto mortale è un’ucronia, un passato parallelo che nasce da un infarto: che cosa sarebbe successo se nel 1923, prima di poter fare tutti i danni, e in particolare quelli delle leggi razziali, a Mussolini fosse preso un colpo?
Sarebbe successo che molte famiglie avrebbero continuato a fare la loro vita, piena di cose, di amori come di dolori, di viaggi. Sarebbe successo che alcune famiglie, come quella dello straordinario Moishe Levi, si sarebbero ramificate e sparse un po’ per tutto il mondo.
Moishe Levi che parte da Fossano con soltanto un carretto e delle pezze di stoffa in un mattino di fine estate del 1872. Che al primo bivio sbaglia strada, e trova il primo tassello della sua fortuna. Che da quasi nullatenente diviene padrone d’una ditta che fa affari in tutto il mondo. Moishe Levi con il suo talento fulmineo, istintivo. La storia grande, quella dei libri, fa appena capolino, qua e là. Lo sguardo dell’autrice si concentra invece con attento affetto sui personaggi, sulle loro vicende tratteggiate sempre con una grande leggerezza non disgiunta da una grande efficacia. I caratteri di questa famiglia, che col passare dei capitoli si allarga sempre più, sbalzano rotondi: non c’è nulla di evanescente, e al tempo stesso, nulla che sappia troppo di stereotipo (il che mi sembra una gran dote).
Mi viene in mente che avrei anche dovuto dichiarare un’altra cosa, all’inizio: che mi piace incontrare pagine in cui si sente che l’autore vuole bene alle sue creature, che non le sbeffeggia, che non ci gioca contro, che non si accanisce a scolpirne soltanto le miserie, o peggio ancora, a usarli per mettere in evidenza soltanto le miserie del mondo (sia chiaro, questa è cosa ben diversa dallo scrivere un romanzo rosa).
Questo sguardo affettuoso fa sì che l’intera vicenda tenga, analogamente, seppur in modo diverso, a quanto faceva il già nominato Train de vie. È come se ci si potesse dimenticare della catastrofe, che anche qui viene ricordata nella prima pagina che segue la fine del libro, intitolata Due parole con il rimpianto di poi, in cui Elena Loewenthal dice: L’ho scritta per non arrendermi al silenzio di quei morti. Per provare, una volta tanto, a pensare la Storia non senza di loro, ma insieme a loro. Immaginandoli accanto a me. A noi.
Solo con quella specie di intensa e pregnante levità si poteva riuscire a rendere questo libro credibile. A tutto questo contribuiscono alcune cose. Per esempio l’uso qui e là del dialetto piemontese, a rendere concreto e colorito il mondo della storia tanto da poterlo toccare con mano (per lo meno, a me che sono piemontese, che il dialetto non lo parlo, lo mastico soltanto male).
Inoltre, lo spargere per tutto il libro la formula: a dire più o meno il vero. Da un lato, perché immaginando di ricostruire una storia familiare attraverso i ricordi, che sono per loro natura spesso fallaci, oppure finti, o se non altro, riverniciati, è una specie di cautela necessaria e innocente (non si fa del male a nessuno, è semplicemente così che va). Dall’altro, perché in fondo tutto il libro è così: dice più o meno il vero. O meglio, dice quello che sarebbe stato vero se.
di Stefano Mola