Recesione de “I cattivi elementi”
Luglio 12, 2001 in Libri da Redazione
Il 16 di luglio del 1950 volavo verso New York. Era il viaggio inaugurale della Lai ed ebbi la fortuna di stare accanto a Eugenio Montale. Di quell’incontro col Poeta ricordo (soprattutto) queste precise parole: «La cronaca è il primo gradino che attraverso la verità conduce alla poesia». Al Foghër di Cortina, in una sera dell’inverno del ‘66, Paolo Monelli e Palmina avevano invitato Buzzati, mia moglie ed io. «… qualche critico storce il muso perché, dice, non pochi racconti di Buzzati, che poi sarei io, son tratti dalla cronaca. Bei somari: come se fosse facile far letteratura, e di quella buona, partendo da un
Il nostro Grande, dunque, racconta fatti di cronaca: compie cioè «un esercizio di scrittura» tra i più difficili. Passa per una cruna ideologicamente immensa, letterariamente stretta e dura. L’attraversa, codesta cruna, in forza non soltanto d’un robusto talento narrativo quanto in virtù di quel candore magico ch’è solo dei fanciulli quando si raccontano con assoluta sincerità, ignari di sfiorar spesso la Poesia. Prego il lettore di seguirmi: un cronista, ch’è poi l’autore, assiste a un veloce assassinio. Banale nella sua terribile rapidità. Con un colpo di cric il Caimano fa fuori Zenobio: e il cronista racconta. «Il primo sole della giornata gettava sulla scena una luce radiosa. Bucai la folla ed entrai nel bar deserto. Appoggiato al muro, composi tremando il numero del giornale:
E allora? Cos’è tutto questo? È semplicemente e puramente «nera» trasformata in buona letteratura. A leggere questo libro di Grande si fa presto, ma posso immaginare quanta fatica gli sia costata l’impresa. Anche il Vecchio Cronista ha pubblicato un libro di «cronache con forma di racconto», ed è stata una bella sofferenza, una fatica santa ma vera. Certo, poi, dopo, ci si sente puliti dentro, liberati dal «fatto» ma qualcosa ti rimane addosso di quel fattaccio, della fatica sofferta per raccontarlo. Trasfigurandolo. Senza, tuttavia, tradire la verità. Ma non c’è solo il filo invisibile e tenero della poesia a cucire le quattro storie di questo libro così felicemente diverso da tanti altri. C’è anche l’ironia amara di chi si rende conto di vivere, oggi, sul precipizio di quella che fu la nostra Storia (o Cultura) sicché cita Marinetti e strizza l’occhio a un nuovo Manifesto, quello della giovinezza: una giovinezza smagata ma tenace come e più di una capra decisa a brucare proprio quel poco d’erba verde sopravvissuto all’insulto sistematico del «progresso».
Quando, a lettura finita, ho chiuso questo bel libro insolito di Grande, mi son sorpreso a dire, piano, a me stesso: finché esisterà un filo d’erba, l’uomo potrà salvarsi. Fuor di metafora: libri così ti riconciliano con la letteratura. Con tanti saluti ai cannibali: vecchi e nuovi.
[per gentile concessione dell’autore e dell’editrice La Stampa – 12 giungo 2000 – La Stampa]
di Igor Man