Una grande Traviata apre la stagione del Regio
Ottobre 24, 2009 in Spettacoli da Stefano Mola
Che Traviata ci ha accolto sulla soglia della stagione 2009-2010 del Teatro Regio? Direi una donna bellissima, che non ha bisogno di trucco vistoso, gioielli o scosciature, per farsi notare. E fuori di metafora, sorretta da un’esecuzione musicale e da una coppia di protagonisti di assoluto rilievo.
Partiamo dall’allestimento di Laurent Pelly. Sulle note del preludio, il sipario lentamente ci offre una scena affollata di parallelepipedi lievemente deformati, un po’ come se Dalì avesse cercato di intervenire su un Picasso del periodo blu ma non avesse avuto abbastanza tempo (le scene sono di Chantal Thomas ). Blu è infatti la luce che li illumina, e che fa bipartito lo spazio: il fondale è d’un livido bianco. Entra prima uno sconsolato signore, che non si fatica ad immaginare Alfredo, quindi una bara seguita da un corteo di ombrelli. Da qui si capisce subito che la storia non può finire bene, ma questo lo sappiamo già.
Racconto le cose così come le ho pensate, perché questa iniziale perplessità si è man mano sciolta: se andrete a vedere lo spettacolo abbiate dunque pazienza. Mi sono quindi chiesto: perché occupare la scena con questo insieme di forme geometriche, sostanzialmente immutato per tutto lo spettacolo? Ogni scena non è soltanto un tentativo (impossibile) di mimesi, ma anche evocazione. Tutto il mondo in quei metri quadri non ci sta, ma un universo può essere generato anche solo dal gesto d’una mano. Come fa un mimo, per esempio.
Che cosa offrono queste forme geometriche d’altezza variabile? Un labirinto in cui si incanala e disperde la folla. Un sistema di pedane che permette di evidenziare in modo assai dinamico e dialogico il rapporto tra i personaggi, insieme a un sapiente uso delle luci (di Duane Schuler). Violetta e Alfredo possono così essere contemporaneamente insieme agli altri ma anche estratti. Come due amanti in mezzo alla folla cancellano il mondo, estratti su un invisibile piedistallo.
Questo sistema di altezze sfalsate è ad esempio perfetto per l’entrata di Germont nel secondo atto. Alfredo ha appena toccato il punto più basso della sua performance, pronunciando le terribili parole: Qui testimoni vi chiamo/ Che qui pagata io l’ho. Per il miracoloso tempismo che è proprio del teatro (e raramente della vita) si manifesta allora il padre, per dire le seguenti parole: Di sprezzo degno se stesso rende/ Chi pur nell’ira la donna offende. Lo fa dal parallelepipedo in fondo a sinistra, il più alto di tutto, incombe come una mozartiana statua del commendatore.
(Che verrebbe invece da dire a lui: ma non lo sai che sei tu ad aver combinato tutto il casino? Che basterebbe una tua parola per gettarli l’uno nelle braccia dell’altra? E per salvare cosa, poi? L’altra tua figlia che manco s’è vista? Ma non andiamo oltre, ricordando ancora una volta che la miglior analisi della vicenda è quella di Lella Costa)
Le pedane ad altezze variabili hanno anche un valore simbolico. Traviata è anche un dramma dove le cose non succedono al momento giusto, dove i sentimenti e la loro forza spesso sono squilibrati. L’amore di Violetta e quello di Alfredo, sono dello stesso livello? Probabilmente no. Quello di Violetta è da subito assoluto, riconosciuto come qualcosa che si immaginava non dovesse (potesse) arrivare più. Quello di Alfredo è sì intenso, ma forse anche più superficiale, è un sentimento che si guarda allo specchio. E Alfredo, insieme al padre, arriva tardi, quando ormai Violetta sta per morire.
Il vero colpo di genio di Laurent Pelly è però nella transizione tra il secondo e il terzo atto. Gli intervalli dello spettacolo non rispettano la naturale sequenza degli atti: ce n’è uno solo dopo la scena VIII del secondo, ovvero dopo che Alfredo dice Ah! ell’e’ alla festa! Volisi/ L’offesa a vendicar. Si riparte quindi col gozzovigliante festa nel palazzo di Flora, ove avviene la succitata scena dello spregio di Alfredo. Di lì, dopo l’unanime biasimo, tocca passare dallo sfarzo (ben rappresentato dagli specchi che troviamo sulle superfici dei famosi parallelepipedi) al letto di dolore.
Ecco, la musica finisce. Violetta resta immobile di spalle alla platea, sola davanti alla folla degli invitati alla festa. Parte la musica straziante del preludio, la scena diventa buia se non per uno strettissimo cono di luce diafana, quasi impalpabile, che sembra davvero scendere piano, come neve, e che la isola ancor più di quanto già non sia. Poi le altre donne le si fanno vicine, la circondano completamente, nascondendocela. Inizia un movimento di braccia e mani, si intuisce che la stanno spogliando. La vita pubblica di Violetta è finita in quel momento, gli abiti mondani non le servono più. C’è qualcosa che rimanda a una cerimonia sacra. Nel frattempo tutto intorno vengono distesi teli bianchi sopra i parallelepipedi. Le altre donne se ne vanno, termina il preludio, Violetta è sotto il lenzuolo: la fine può avere inizio.
Come sempre ci siamo dilungati sull’allestimento, ed è ora di parlare della musica. L’esecuzione di Gianandrea Noseda ci ha decisamente entusiasmato. Magari non indugiato nello struggimento languido cui il nostro orecchio è abituato per addomesticamento da altre esecuzioni, ma ha saputo estrarre nota per nota, corda per corda, fiato per fiato, tutto quello che c’è nella partitura. Si aveva l’impressione che si potesse davvero sentire la singola corda del singolo violoncello. Una esecuzione scultorea, fatta di volumi netti (volendo, in singolare consonanza con i succitati parallelepipedi), davvero al totale servizio della tensione drammatica e del canto. A nostro modesto giudizio, una delle sue più belle prove.
La Violetta di Elena Mosuc è un capolavoro. La soprano romena sembra lavorare non sulla singola parola, ma sulla singola lettera della parola, modulando la voce con una espressività che lascia il fiato sospeso. Il volume si smorza, diviene esile, poi riprende corpo, pienezza, in spazi brevissimi. Al suo fianco, ottima la prova di Francesco Meli, tenore dalla voce rotonda, possente, priva di esitazioni, che riempie la sala del suo sentimento. Buono il Germont di Carlos Álvarez, così come il coro e i restanti personaggi. Un’ottima Traviata, per un ottimo inizio di stagione. Lo diciamo ancora una volta: spettacoli come questo non meritano i tagli alla cultura.
di Stefano Mola