Aida
Ottobre 17, 2005 in Spettacoli da Stefano Mola
Domenica 16 abbiamo assistito alla rappresentazione dell’Aida. Uno ha l’idea che l’Aida sia qualcosa di intrinsecamente monumentale. Tutta colpa di quella tromba, della marcia trionfale, dell’Egitto (le piramidi sono oggettivamente molto grandi). In realtà, una buona percentuale dell’Aida è riempita di un dramma sentimentale. Due lei amano un lui che ama una sola delle due lei. Una delle due lei, Amneris è potente, in quanto figlia del faraone, mentre l’altra lei, Aida è la sua schiava, figlia di re ma presa prigioniera. Ovviamente, altrimenti le cose sarebbero semplici, lui, cioè Radames, capitano eroico delle guardie egiziane, ama quella più sfigata. Quindi c’è molto di psicologico, e del resto in Verdi non mancano altri esempi in cui la condizione privata si infrange, per lo più drammaticamente, contro il contesto, i vincoli sociali (diciamo Traviata, diciamo Simon Boccanegra? e ci fermiamo qui).
La monumentalità eventuale della sceneggiatura quindi non può che sottolineare l’isolamento intimista della condizione individuale, concedendosi invece lo sfarzo dei pieni in alcune scene di massa che permettono decisamente di sfogarsi: il trionfo di Radames, la consegna della spada nel tempio di Vulcano, etc. Spesso però i personaggi sono massimo due in scena, con il peso di templi e sarcofaghi alle spalle e sulle spalle.
Che cosa ha scelto di fare William Friedkin regista di film de paura? Secondo me ha scelto di fare una cosa onesta, senza strafare, senza invenzioni particolari, senza stravolgimenti. Egitto il libretto prescrive, ed Egitto troviamo in scena. Statue grandissime, colonne, geroglifici. Molto belle le due scene di massa: i ballerini acrobati e i soldati tra il pubblico in quella del trionfo, con ooh del pubblico, veramente suggestiva la scena nel tempio di Vulcano giocata su un blu leggermente elettrico che sospende il tutto nel sogno. A volte però si ha l’impressione che sui movimenti degli interpreti, soprattutto quelli del Radames di Nicola Martinucci, un po’ manichinico, si sarebbe potuto lavorare di più. Tutti in bianco, o marrone oro, tranne Aida che fin dall’inizio è in rosso (di peccato o di passione o di tutti e due?), e alla fine Amneris, in quasi viola (viola?! forse era solo blu carico). Chiaro che la regia dell’anno scorso di Davide Livermore in Billy Budd per genialità e supporto al testo e alla drammaticità rimane un esempio di invenzione senza stravolgimento, vera innovazione.
Un plauso convinto va all’orchestra e al direttore Pinchas Steinberg. L’interazione con i cantanti e il coro mi è sembrata eccellente, così come la gestione dei volumi sonori, tra i pieni drammatici e i sospiri intimisti, tutto al suo posto, con nitore, con il cesello. Voto altissimo al coro, perfetto dal sussurro al fortissimo, così come anche al corpo di ballo. Per gli interpreti (visto il secondo cast) direi un buono, senza picchi particolari, ma assolutamente senza cadute. Menzioni particolari per Luca Grassi (Amonastro) e Riccardo Zanellato (Ramfis, il capo dei sacerdoti). Bene le due donne, Micaela Carosi (Aida) e Carolyn Sebron (Amneris).
Teatro assolutamente pieno in ogni ordine di posti, pubblico generoso di applausi. Insomma, la stagione promette molto bene.
di Stefano Mola