Atterrando a Nairobi
Febbraio 12, 2001 in Viaggi e Turismo da Redazione
(pensieri di una qualsiasi sera d’agosto)
Pochi giorni fa stavo all’aeroporto internazionale Jomo Kenyatta, a Nairobi, sala arrivi internazionali, a scrutare i volti di quelli che arrivavano, sperando di riconoscerci quelli dei tre amici che stavo aspettando. L’aereo, secondo il solito cartellone tranquillizzante ed infido, era già atterrato da una buona mezz’ora, ma la sala arrivi continuava a restituirci turisti alti biondi ed un po’ trasandati, che avevano tutta l’aria di sbarcare dal volo KLM da Amsterdam piuttosto che da quello Alitalia, partito otto o nove ore prima da Milano Malpensa.
Sgomitando garbatamente per guadagnarmi la prima fila, quella in cui puoi finalmente appoggiarti alla transenna ed assumere una posizione d’attesa relativamente comoda, mi domandavo se Nairobi, ai miei amici, sarebbe piaciuta oppure no. Mah. Forse no.
E’ una ben strana città, Nairobi. Io in realtà ci sto da quasi sei mesi ed ancora non ho capito se mi ci trovo bene o se la sopporto appena. Arrivandoci per la prima volta dall’aeroporto, la sera, col buio, ti pare di essere sbarcata in un posto qualunque, voglio dire che potresti essere capitata in un qualsiasi angolino di un qualsiasi continente di questo nostro malconcio pianeta: arrivi internazionali, carrello, parcheggio, rotatoria e rallentare, poi un cartello collocato in posizione piuttosto sciagurata, proprio all’ultimo, sicché non ti restano che tre-cinque secondi al massimo per decidere se vuoi prendere a destra per Mombasa (“prima o poi dovrò pure regalarmela, una settimana sulla costa! è che lavoro troppo, ecco”) oppure a sinistra per Nairobi. Va beh, alla fine dei tre-cinque secondi il senso del dovere finisce sempre col prevalere, dev’essere per via di questi geni troppo piemontesi, e allora pigliamo per Nairobi, e per farlo ci tocca immetterci, da fermi, direttamente sulla corsia veloce di un doppio vialone trafficatissimo, percorso da veicoli che si superano vicendevolmente a velocità assolutamente non correlate alla propria capacità frenante.
Edilizia qualsiasi: capannoni industriali, poi le classiche costruzioni basse, a un piano solo (il pian terreno), che ospitano negozi e negozietti di ogni ordine e grado, e poi lo skyline del centro città, perché naturalmente c’è pure la down-town con i Grattacieli, se no dove li metterebbero, l’Hilton e le Banche? L’Hilton e le Banche possono stare solo nei Grattacieli, e una Capitale non può stare senza l’Hilton e senza le Banche, dunque a Nairobi centro ci sono i Grattacieli.
Veramente a Nairobi ci sono anche gli slums, che in italiano penso si chiamino baraccopoli, però stanno a qualche chilometro dall’Hilton e dalle Banche e sono parecchio affollati, anche se nessuno ti sa dire esattamente quanta gente ci sia dentro: un milione, o forse due. La deviazione standard pari al 50% mi pare sintomo inequivocabile di una certa approssimazione del dato. Negli slums, la gente sta ammassata, tutti gli uni sugli altri, senza alcun servizio, senza acqua corrente, senza acqua potabile, senza luce, senza la minima garanzia igienica, senza reddito fisso e, come logica conseguenza, senza futuro; comunque, è certo che non porterò i miei amici a visitare gli slums la sera, col buio, e per giunta arrivando direttamente dall’aeroporto, poveracci, stanchi morti di Alitalia e di succhi d’arancia e di riviste stropicciate.
Ma mentre io mi distraevo e lasciavo scorrere i pensieri sulla carta di Nairobi, la popolazione degli atterrati era cambiata.
Ora la sala arrivi ci restituisce soltanto ondate di turisti griffati, preti e suore, il che inequivocabilmente mi dimostra che stavolta si tratta degli agognati viaggiatori Alitalia. Ed eccoli, i miei ospiti: due antiche compagne di scuola (“maturità dell’85: c’era ancora -mi pare- il pentapartito, e l’allenatore della nazionale era il classico Enzo Bearzot”), una scortata dal marito, l’altra no. Saluti, abbracci e baci, “ma ci pensi che cosa incredibile incontrarci qui, e qual’é la tua macchina?… Ma dai, un Pajero, ma lo guidi tu? Che ridere”. Ancora abbracci e baci, e valigie in macchina, e partiamo (guido io) e ci facciamo l’Uhuru Highway fino alla grande rotatoria del centro, qui prendiamo a sinistra, Kenyatta Avenue, ecco i centri commerciali dove puoi mangiarti la caprese fresca (un po’ cara, però) e pure comprarti i quotidiani italiani di tre giorni prima, e così arriviamo a Hurlingham, Kilimani, Lavington, ora stiamo proprio dentro la Nairobi benestante, molto bianca e molto indiana. Non è la più ricca, però: i ricchi veri veri forse stanno solo a Karen.
Molti di quelli che stanno qui sono ricchi perché sono a Nairobi, con buoni giri d’affari o stipendi da trasferta estera, però se se ne stessero a casa loro sarebbero “normali” (dal punto di vista del reddito, voglio dire). Ad ogni modo, noi che stiamo qui abbiamo tutti casa con giardino e guardiano e cane e generatore (indispensabile per chi ce l’ha, visto che da quasi cinque mesi ci sono black-out quotidiani di dodici ore sull’intera città).
Ci siamo arrivati in quaranta minuti di macchina, dall’aeroporto a casa, non male per le distanze infinite di Nairobi, questo posto strano che è fatto per i possessori di automobili, gli altri non ce la faranno mai ad arrivare in tempo da nessuna parte, non faranno l’Università, non si faranno una posizione e passeranno la vita ad andare a piedi da un posto all’altro. I miei amici sono un po’ spaesati. D’altronde, è la loro prima sera ed hanno avuto pochi indizi utili per capire che ci troviamo in un pezzetto di Africa Orientale: la guida a sinistra (sgradita eredità britannica), i matatu (arrembanti pulmini-taxi che stanno ai primi posti nelle statistiche delle cause di morte evitabile), le mandrie dei Masai che passano la notte lungo Mombasa Road (in piena città: se la ritrovano lungo la strada verso il Nord, spinti dalla siccità e dalla sete di erba) ed i passanti neri, che vedi all’ultimo momento quando ti attraversano allegramente a piedi lo stradone a quattro corsie ed ottanta chilometri all’ora.
Intanto, fra un pensiero e l’altro, siamo arrivati a casa, ed i miei ospiti già possono farsi una doccia, visto che proprio oggi abbiamo comprato una intera camionata d’acqua (dai tubi ne arriva pochina, perché è razionata pure lei, oltre all’elettricità: pare sia colpa della grande stagione delle piogge, che quest’anno ha dato buca). I miei ospiti non sanno la fortuna che hanno, a potersi fare una doccia così, subito, senza inghippi, a Nairobi.
“E domani, dove li porto?” A mangiare la carne di gazzella al ristorante più alla moda fra i turisti, a circa 1500 scellini ciascuno (se non si esagera con le bevande)? O a sfamarsi a un baracchino per trenta scellini? O, tipo via di mezzo, al mio ristorantino italiano preferito, 6-700 scellini per un primo abbondante con montepulciano scaraffato? Non lo so ancora, e poi ci sono così tanti mondi diversi, dentro Nairobi, che potrei procurare ai miei malcapitati ospiti choc culturali ripetuti nell’arco di ventiquattro ore, potrei sottoporli ad una specie di pastorizzazione emozionale, passando bruscamente da Karen a Korokocho a Westlands a Mathare a Lavington a Kariobangi….. invece forse faremo colazione, in giardino se c’é il sole, e poi prenderemo la macchina ed andremo al Nairobi National Park, giraffe e gazzelle e leoni ad appena trenta minuti dalla porta di casa, il Kenya rassicurante ed esaltante alla Karen Blixen, con i suoi profili d’acacia stampati contro il cielo lunghissimo, e la savana, e la natura e naturalmente un dolce principiar di mal d’Africa. Ma sì, forse faremo così. Dopotutto, è solo il primo giorno. E poi, loro sono in vacanza, e per me è il week-end, allora possiamo mettere in stand-by gli altri pensieri e pensare che l’Africa stia davvero tutta nella poesia delle acacie stagliate contro il cielo e delle gazzelle che pascolano aspettando di essere divorate dal predatore di turno. Ma sì, è il week-end, per dedicarci alla realtà avremo i cinque giorni che seguono.
di raffa