Battere in 3 (+ 2)
Novembre 29, 2009 in Musica da Redazione
Un gruppetto di recenti uscite discografiche ci suggerisce un utile sopralluogo del pianeta-batteria attraverso quattro leader per lo più rivolti all’organico-base del jazz: il trio
Nel jazz era un tempo abituale ritenere che i batteristi leader si contassero sulle fatidiche dita di una mano. Non mancavano certo le eccezioni, spesso illustri, che tendevano per lo più a dirigere gruppi con fiati (quintetti, in genere), da Max Roach (celeberrimo quello con la vulcanica tromba di Clifford Brown) ai Jazz Messengers di Art Blakey. Sono poi arrivati via via Elvin Jones, Tony Williams, Billy Cobham e tanti altri, generalmente rivolti a un jazz vivace e muscolare. Rari erano i trii.
Anche questa tendenza, da un po’ di tempo in qua, è andata però mutando. Una serie di recenti uscite discografiche tutte a nome, appunto, di batteristi ruota attorno proprio alla formula più “economica” del gruppo jazz: il trio con piano, contrabbasso e batteria. In verità, uno dei quattro album a cui ci riferiamo abbraccia la formula più classica – secondo quanto detto poc’anzi – del quintetto con coppia di fiati (qui il trombone del nostro Gianluca Petrella e i sassofoni del tedesco Wolfgang Puschnig), conservando al tempo stesso quella corporeità che abbiamo individuato (semplificando non poco, si capisce) come una sorta di marchio di fabbrica della formula. Il CD in questione s’intitola “Pan Atlantic” ed è firmato dal batterista italoamericano Bobby Previte, che al ruolo del leader non è certo nuovo. Questo lavoro in particolare, inciso in aprile a Torino, non manca di far ricorso all’elettronica (anche questa non è una novità, da Miles Davis in poi), funkeggiando non poco, per un prodotto in verità di grana un po’ grossa, strutturalmente (e ritmicamente) troppo rigido, che raggiunge i suoi apici – non certo per campanilismo – quanto più Petrella ne è protagonista.
Singolare, poi, il secondo album in scaletta: è in trio come i successivi, ma vi convivono un’anima tipica del piano trio, spesso cantabile, ariosa, ricca di interplay, con momenti che paiono avvicinarsi, curiosamente, ai percorsi del CD precedente. Scoprendone personaggi e interpreti ne capiremo di più: si tratta infatti di “Music We Are” di Jack DeJohnette (foto in alto), batterista fra i massimi degli ultimi quarant’anni, che vi si accompagna al pianista panamense Danilo Perez e al bassista, pure lui italoamericano, John Patitucci. Ora: DeJohnette, storico batterista del Miles Davis della svolta elettrica (corsi e ricorsi, già), da venticinque anni fa parte del leggendario Standards Trio di Keith Jarrett, per cui conosce a menadito la formula, così come gli stessi Perez, celebrato leader a sua volta, e Patitucci, sodale storico, fra gli altri, di Chick Corea, altro guru del piano trio (e andrà ricordato che Perez e Patitucci sono entrambi membri del formidabile quartetto diretto da alcuni anni da Wayne Shorter).
Altro particolare rivelatore: DeJohnette è a sua volta pianista, veste in cui usava spesso prodursi, per esempio, nella sua celebre Special Edition, gruppo – guarda caso – ricco di fiati. Qui, oltre alla batteria, il Nostro si misura (anzi “giochicchia”, come apparirà chiaro in particolare visionando il DVD che integra il CD, documentandone la gestazione) anche con la melodica, ma va da sé che le cose migliori arrivino dai brani in trio-standard, su tutti Earth Speaks, Panama Viejo e Ode to MJQ, dove, privilegiando qua e là un’astrazione sospesa ed elegante, quasi distillata, si eludono abilmente certe cadute di gusto che penalizzano altri segmenti del disco.
La formula in oggetto è invece per intero al centro delle operazioni – e, va detto subito, ai massimi livelli – in “Rooms” del romano Fabrizio Sferra (in homepage nella foto di Roberto Cifarelli), da sempre frequentatore del settore (per esempio con Pieranunzi e Doctor 3), che qui si avvale dei servigi di Giovanni Guidi, pianista umbro appena ventiquattrenne ma già grande protagonista del jazz nostrano, e Francesco Ponticelli al contrabbasso. Qui la raffinata vaporosità dei momenti migliori di “Music We Are” è una costante, abbinata a una cantabilità più magra, essenziale, seduttiva senza mai risultare ruffiana. Un disco veramente esemplare, diviso in diciassette “stazioni”, per lo più brevi, tra cui sarebbe pleonastico indicare la crema. Basti dire che, all’interno di percorsi che potrebbero rischiare l’univocità, si ha invece agio di godere di ogni piccola o grande invenzione (Guidi in particolare ne è maestro), fuor da ogni odore di prevedibilità. Da non perdere.
L’opera con cui chiudiamo questo breve sopralluogo sul pianeta-batteristi/leader è anche la più ambiziosa. Si tratta infatti di un triplo CD in cui lo sloveno Zlatko Kaučič raccoglie i riflessi dei concerti commemorativi per i suoi trent’anni di attività. Ed è doveroso notare come tutte e tre le sedute, realizzate tra il febbraio e il luglio 2008, siano rigorosamente in trio. Con partner sempre diversi, però. Nel primo fanno da cornice al suo inusuale drum set (vedi foto in basso) il sassofonista argentino Javier Girotto e il bassista friulano Salvatore Majore. E’ interessante, in particolare, il convivere dei sassofoni (specie il soprano) carichi di pathos di Girotto con l’olimpica imprevedibilità di Kaučič. Il secondo CD vede la presenza di un altro ottimo bassista friulano, Giovanni Maier, e quella, nodale, della cantante turco-elvetica Saadet Türköz, non distante dai tracciati della più nota Sainkho. Il tutto per un dialogo a tre che giustappone momenti quasi cameristici ad altri in cui si rasenta il parossismo, in un equilibrio tanto precario (almeno in apparenza) quanto fecondo. Una sensibile flessione si registra per contro nel terzo CD, il che si spiega essenzialmente con la presenza del (peraltro glorioso) polifiatista tedesco Peter Brötzmann, la cui veemente “corporalità” non riesce proprio a evitare di sovrastare (non fosse altro che per volume sonoro) i partner di turno (qui il “terzo incomodo” è il baritono – nel senso di cantante, abbastanza nel ruolo di pesce fuor d’acqua – Robert Vrčon). Rare oasi (per lo più quando Brötzmann si fa da parte…) si pongono così a chiazze entro una musica spesso verbosa, e anche un po’ logorroica. Le cose migliori, sia quel che sia, arrivano regolarmente dal drumming aromatico, spesso asimmetrico, obliquo, mai scontato, di Kaučič, grande maestro europeo dell’arte del “battere”.
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di Alberto Bazzurro