Canzoni per i piedi
Novembre 16, 2002 in Musica da Redazione
Una ventina d’album all’attivo, milioni di dischi venduti, tournée da sold-out dall’inizio alla fine, parole e musiche per due album di Celine Dion, co-ideatore del must “Aïcha” di Kalhed. Come presentare la carriera di Jean-Jacque Goldman a chi non ne ha mai sentito parlare? Sono un po’ i paradossi di questo mondo globalizzato e di questa Unione Europea che non permettono ai personaggi famosi in patria di esserlo anche all’estero, salvo casi eccezionali.
Niente è più lontano dallo show-business e dalla mondializzazione dello stesso Jean-Jacques Goldman. Nato nella grigia e spesso criticata periferia parigina, vi risiede tutt’oggi nonostante il suo conto in banca; da decenni sotto i riflettori, è sempre rimasto fedele alla sua famiglia, che ha preservato dal turbinio della sua vita professionale; seduttore del pubblico, soprattutto femminile, numeroso ai suoi concerti, ha continuato a scrivere testi e titoli «umili»: “démodé”, “minoritario”, “a quelli che restano fedeli”, “solo delle canzoni per i piedi”; e si definisce il fratello maggiore delle sue fan. Non un santo, è chiaro, ma un cantante onesto che ha saputo nel corso della sua carriera restare fedele a se stesso ed alla sua estrazione sociale.
Le canzoni di Jean-Jacques Goldman sono pop, indubbiamente pop, pure un po’ rock’n’roll. Potremmo paragonarlo un po’ al Liga: meno rockettaro, più timido e pacato, ma non mancano mai chitarre ed accordi nei suoi brani. In più, la forza di Goldman è nei testi. O leggeri, scanzonati, festaioli e positivi, o riflessi e pregni di significato, di poesia. Non mancano casi in cui le due vene creative si sposano. Il suo disco più importante, uscito nel ’97, “En passant” (che segna il ritorno alla carriera solista) è molto uniforme come stile e ha venduto in qualche anno 1 milione e 250 mila copie.
Con il nuovo album, “Chanson pur le pieds” (2001), Goldman si vota ancora una volta alla semplicità. Nessuna pretesa per questi 12 pezzi, che hanno la sola volontà di far muovere gli arti inferiori del pubblico. Qui lo stile è molto variegato, volutamente. Ogni canzone ricorda uno stile, un popolo intero che danza: ci sono la tarantella, le canzoni celtiche, la disco, il rythm&blues, le ballate.
Ma in realtà c’è anche dello spessore, dell’etica nei testi. “Le choses” è la visione poetica di Jean-Jacque della globalizzazione, l’invito ad aprire gli occhi e a non farsi avere dagli oggetti; qui il cartesiano «penso dunque sono» diventa definitivamente «posseggo dunque sono». Ma anche “Ensemble”, in apertura di cd, inneggia al positivo: insieme è meglio, sempre.
Poi grandeggiano i temi poetici, le descrizioni di stati d’animo, i punti interrogativi. “Et l’on n’y peut rien” e “Tournent les violons”, entrambi possibili singoli, ricordano le danze irlandesi ed il nostrano Branduardi, mentre “Une poussère”, per quanto sia dichiaratamente una canzone di stile ceco, immerge l’ascoltatore in atmosfere Dire Straits; ancora, a stelle e strisce “The Quo’s in town tonite”.
In sostanza, un bel disco da ascoltare e da ballare; e, per chi può, da meditare. Cosa che è possibile fare anche per noi, pubblico italiano, grazie alle pieghe della globalizzazione ufficiale: richiedendolo ai negozi specializzati, d’importazione, ai siti internet, tipo Fnac, o andando a fare una gita a Briançon o Chambery. Giusto per aprirci un po’ gli orizzonti.
di Diego DID Cirio