Carlo Giuliani, ragazzo
Giugno 21, 2002 in Cinema da Redazione
La dignità di una madre di fronte alla morte del figlio. Questo è, ma non solo, “Carlo Giuliani, ragazzo” il film uscito venerdì 14 giugno in sette città italiane. Il documentario di Francesca Comencini girato con la collaborazione di Luca Bigazzi (senza ombra di dubbio il miglior fotografo del cinema italiano) ha fatto fatica a trovare un distributore e delle sale in cui venire proiettato e non certo per demeriti artistici. “Carlo Giuliani, ragazzo” è la scritta che qualcuno sovrappose al toponimo di Piazzale Alimonda una volta sedatisi i tumulti del G8 genovese. La pellicola è la ricostruzione di quell’ultimo giorno di vita di Carlo Giuliani. A parlare, con fermezza e con chiarezza, è la madre («La resistenza è stata uno dei momenti più alti della storia italiana. Ecco io credo che quel giorno mio figlio, insieme a quei ragazzi, stesse facendo della resistenza»), la quale, nei mesi successivi alla morte del figlio, ne ha ricostruite le ultime ore attraverso testimonianze dirette, filmati, fotografie, articoli di giornale, perizie.
Il racconto della madre è intervallato, con un accurato montaggio ed un calibrato senso del documentario, dalle immagini girate dai registi italiani presenti a Genova. La documentazione è dettagliatissima, scientifica, oggettiva.
Il film getta una nuova luce sugli scontri fra le forze dell’ordine ed i manifestanti no-global, la morte di Carlo Giuliani viene inquadrata da una diversa prospettiva, senza i filtri dei telegiornali di regime. Come detto nell’attacco, non c’è soltanto la dignità di una madre davanti alla morte del figlio, vi è anche una riflessione sulla distorsione dei media.
Un esempio. E’ passata alla storia la foto che ritrae Carlo Giuliani con l’estintore sollevato sopra la testa. Dalla documentazione video di quello spaccato del G8 è possibile valutare in uno o due secondi il tempo nel quale il ragazzo ha sollevato l’oggetto. Appena Giuliani ha raccolto l’estintore è partito il colpo del poliziotto sul Defender. La foto Reuters rilanciata da giornali e telegiornali è stata presa alle spalle di Giuliani e, per un logico gioco di prospettiva, ha inevitabilmente schiacciato la sagoma del ragazzo facendolo sembrare appena sotto la jeep. C’è un’altra foto che cambia totalmente la prospettiva ed i fatti. E’ una foto meno nota che ritrae il ragazzo nello stesso istante, ma di lato. Ebbene, fra Giuliani e la camionetta ci sono tre metri, tre metri e mezzo. Il che vuol dire che Giuliani (alto, ricordiamolo, 1 metro e 65), da quella posizione, non avrebbe potuto offendere nessun poliziotto. Una volta partito il colpo, la jeep ha completato l’opera passando due volte sopra il ragazzo e, come se non bastasse, ci sono testimonianze che parlano di calci dati a Giuliani ormai esanime.
La domanda che sorge spontanea è la seguente: perché è passata alla storia la foto Reuters? Perché è stata la prima a far luce sui fatti, certo, ma l’altra foto scattata lateralmente, quella davvero chiarificatrice, è passata inosservata. L’attuale informazione segue una linea di condotta ed una politica che non necessariamente aderiscono alla verità. Capita così – per fare un esempio d’attualità – che l’Italia eliminata giustamente dai Mondiali per l’incapacità di chiudere il risultato e per la scarsa condizione fisica dei propri giocatori prenda lo scandaloso (ma non decisivo) arbitro ecuadoriano come capro espiatorio e come alibi per mascherare le proprie deficienze. E la stampa per non andare contro l’opinione pubblica (che è poi quella che compra i giornali) sta al gioco. E’ così il direttore del più importante quotidiano sportivo d’Italia si può permettere il lusso (?) di dire nel telegiornale delle otto: «…l’arbitro ecuadoriano di cui vorremmo conoscere la mamma…» Purtroppo il modello del Processo del lunedì è dilagato a macchia d’olio in tutti i settori del giornalismo. Non c’è più la verità, ci sono le verità, purtroppo non intese nell’accezione nobile e relativistica, ma nel senso più bieco ed opportunistico. Il revisionismo è pratica quotidiana di chi tira le fila dell’informazione.
«E’ stato detto che mio figlio era un punk. Non lo era. Ma anche se lo fosse stato? Meritava di morire per questo? Meritava di venire ammazzato perché non proponeva un modello di vita simile a quello degli spot pubblicitari?». La chiusa del racconto della madre è questa. Tutto quello che viene dopo (i racconti degli amici, del padre, le immagini di una manifestazione per ricordarlo) non ha lo stesso vigore, la stessa incisività. Molti dicono che il documentario sia l’unico genere veramente vivo e brulicante dell’attuale Italia cinematografara; di questo genere relegato nei ghetti festivalieri, la Comencini ci ha dato un piccolo capolavoro.
di Davide Mazzocco