Carrellata italo-americana
Novembre 9, 2002 in Spettacoli da Redazione
Il Festival di Torino è una manifestazione veramente internazionale, seduti nelle poltrone del Pathé si fa il giro del mondo.
Il viaggio non è però solo spaziale, si possono intraprendere anche incursioni nella storia del cinema, è così che il pubblico assiste ad anteprime, retrospettive, documentari recentissimi e grandi classici.
Può capitare d’imbattersi in un western atipico e “fumettistico” come “L’uomo dai sette capestri” (“The Life and Times of Judge Roy Bean”) di John Huston, sceneggiato da John Milius e interpretato da Paul Newman, Ava Gardner, Victoria Principal, Anthony Perkins, Jacqueline Bisset.
Il film narra la vita di uno svaligiatore di banche che s’improvvisa giudice e fa di un bordello un saloon-tribunale.
Con le ricchezze lasciate dai banditi e dagli assassini condannati, il giudice fonda una tranquilla cittadina dove la pace regna e dove i pochi pistoleri che osano sfidarlo fanno una brutta fine.
Un ambiguo e infido avvocato tradirà Bean sostituendosi a lui nella guida della città.
Il giustiziere, come nelle migliori leggende western, tornerà solo dopo vent’anni, per ristabilire il primato dei valori del vecchio west, i cavalli contro le automobili, le pistole contro le mitragliatrici, i saloon contro le pompe di benzina!
Come dimenticare le facce di questo film, i denti mancanti, le prostitute grottescamente truccate, gli sceriffi di non proprio fidiana bellezza, o il temuto e cadaverico bandito Bad Bob, insomma come dimenticare i brutti ceffi che popolano questa pellicola ironica ma anche amara?
Come non rimpiangere le battute da cow-boy che abbondano in questo film?
“Roy ha ritirato le sue fiches…i suoi stivali rimarranno sempre vuoti!” spiega il vecchietto del west alla fine del film alludendo alla morte di Roy Bean e alla sua eccezionalità.
Il vero western è finito, nessuno potrà più fare film come quelli dei grandi autori del passato.
Al festival di Torino si va di epopea in epopea, dalla conquista del west alla storia di Antonio Rossi, un luogotenente dell’esercito italiano, finito dopo l’otto settembre in un campo di prigionia e sopravvissuto alle umiliazioni e agli stenti infiniti grazie alla sua dignità, al pensiero della famiglia, al ricordo dell’Italia “sana”.
Antonio Rossi racconta dei suoi soldati con gli occhi lucidi, spiega con commozione come abbia scelto di viaggiare fino al campo in Germania tra i “suoi ragazzi” e non assieme agli ufficiali, racconta di come solo grazie a nervi d’accaio e ad una maschera di freddezza sia sopravvissuto alle violenze fisiche e psicologiche imposte dagli aguzzini, parla con ironia della liberazione e confessa che allora l’unico pensiero è stato “almeno si potrà fumare”.
Ascoltandolo parlare nella sua casa o su una spiaggia di Napoli lo immaginiamo giovane luogotenente malequipaggiato e poi “prigioniero con stile”, dignitoso, impassibile.
Tra tanti ricordi terribili registrati dal tenente sul suo diario di prigionia, Antonio cita episodi di solidarietà e amicizia, parla di come ci si difendesse dall’alienazione e dalla tristezza cantando o discutendo di filosofia.
“L’implacabile tenente Rossi” di Francesco Calogero fa parte della serie dei “Diari della Sacher”, documentari-intervista su persone che si raccontano e che offrono il loro sguardo personale sulla recente storia italiana.
di Elena Bottari