Cinemambiente, palcoscenico degli invisibili
Novembre 9, 2003 in Spettacoli da Redazione
Ciò che ha fatto crescere il festival Cinemambiente negli ultimi anni facendolo diventare, in ambito subalpino, secondo solamente al Torino Film Festival è il coraggio di proporre temi d’attualità poco frequentati da un giornalismo che ormai esegue supinamente gli ordini dall’alto e ribatte pedestremente le veline stilate dagli uffici stampa. Il punto di forza di Cinemambiente – creatura di Gaetano Capizzi e Stefano Susca – è la capacità di stimolare il dibattito e di portare a galla il documentario d’inchiesta che in Italia è divenuto una sorta di “panda mediatico”, una razza in via d’estinzione.
E così, in una città piagata dalla disoccupazione e dalla crisi della più importante industria italiana, il festival propone una corposa retrospettiva dal titolo “La celluloide e l’acciaio – Immagini del Cinefiat 1909-2003” un excursus su cent’anni di propaganda e di pubblicità in casa Fiat. Alla versione edulcorata ad uso e consumo degli acquirenti e della potenziale forza lavoro, si contrappone la realtà ben più prosaica dei disoccupati. In “Cassa da vivo – Gli espropriati”, mediometraggio di Giacomo Ferrante, viene data voce a coloro che rimangono esclusi dal ciclo produttivo, gli immigrati, ma anche i lavoratori della Fiat che lottano per il proprio posto di lavoro e per mantenere una vita dignitosa. Tecnicamente incerto (ma le interviste in controluce erano volute?) e contenutisticamente traballante («Ti senti più vicino a un miliardario italiano o a un nullatenente africano?» chiede il regista a un disoccupato) il documentario di Ferrante fa il paio con “Marisa e le altre” di Armando Ceste, cortometraggio che alterna la lettura di una lettera di un figlio alla madre alle interviste delle operaie della Fiat Mirafiori. In entrambi i casi si parla delle malattie professionali: Marisa, protagonista della lettera recitata dall’attore Ascanio Celestini, ripetendo per anni lo stesso gesto nello stesso lavoro rovina le proprie mani, proprio come le operaie di Mirafiori che a trent’anni devono fare i conti con una tendinite o con il tunnel carpale.
Problemi quotidiani privati di una qualsiasi visibilità nei telegiornali (quelli che, smaltite le notizie di rito su esteri e interni, ci illustrano la pedicure della velina, gli umori del panchinaro della Ternana o l’ennesima ricognizione olfattiva del Brunello di Montalcino) trovano cittadinanza in un festival che ha il coraggio di proporre un cinema d’inchiesta. Fra le piaghe della Torino di oggi e domani trova spazio anche la grande preparazione dei Giochi Olimpici, quella che deforesta un angolo di Valle Susa per costruire una pista da bob (da 60.000.000 di euro!!!) che verrà utilizzata per qualche giorno e poi diventerà monumento imperituro alla scemenza umana. “M’agradavo vioure ilamoun” (Mi piaceva vivere lassù, in occitano) di Adonella Marena è un atto di denuncia contro gli sprechi e i danni provocati all’ambiente con la costruzione degli impianti per le Olimpiadi. Un documentario ben scritto, ben girato e ben montato da una regista che avevamo già apprezzato al ToFilmFestival dello scorso anno con “Tute bianche un esercito di sognatori”.
Anche il progetto Scenari di sostenibilità promosso dalla Provincia ha dato il suo contributo nella descrizione di un’altra Torino. “B2House” è andato a scovare coloro che scelgono di utilizzare per le proprie abitazioni le energie alternative, “Empty Trash” e “Verso nuove periferie” hanno focalizzato la loro attenzione su modalità, luoghi e tempi dello smaltimento dei rifiuti nell’area torinese, “Fuori dal seminato” ha illustrato la passione per la raccolta dei frutti spontanei, “NaturaliberaMente” il valore socio-ambientale dei parchi cittadini.
I premi
Il premio al miglior lungometraggio è andato a “Dans, Grozny dans” dell’olandese Jos de Putter, storia di un gruppo di ballerini ceceni che danzano per sopravvivere e dimenticare la paura e la tragedia del proprio paese. Nella stessa categoria si sono viste altre due pellicole di altissima qualità: “Asta e – E’ la vita” di Thomas Ciulei radiografia della vita di Sulina, una cittadina sulle rive del Mar Nero descritta con uno stile equilibrato a cavallo fra documentario e fiction e “La raison du plus fort” di Patric Jean, crudo spaccato della vita degli immigrati in Francia e Belgio con una forte premessa alla base: invece di combattere contro la povertà si combatte contro i poveri, alla chiusura di una fabbrica corrisponde quasi sempre l’apertura di un carcere. Un caso?
Per i cortometraggi il premio è andato a “Biòtope” di Merwan Chabane, mentre il premio al miglior film italiano è andato a “Don Vitaliano”, documentario sul prete no-global che non ha potuto ritirare il premio ma che ha ringraziato mandando una lettera in cui ha spiegato di essere vittima di “provvedimenti disciplinari” che ne limitano la “libertà di parola e di movimento” impedendogli di “prendere parte a manifestazioni pubbliche”.
di Davide Mazzocco