De 3 en 3
Luglio 4, 2008 in Viaggi e Turismo da Stefano Mola
Quel che segue sintetizza impressioni e pensieri suscitati dalla visita alla mostra De 3 en 3, dell’artista messicano Javier Marín, a Pietrasanta (visitabile fino al 31 Agosto 2008).
Pietrasanta ha una piazza rettangolare, chiusa su tre lati da palazzi e dal duomo col quarto occupato dalla chiesa di Sant’Agostino e poi l’apertura verso la collina e il forte. C’è la facciata bianca, semplice, pulita, geometrica del duomo, con a fianco il campanile rugoso di rossi mattoni in vista, aspro, severo. Le banche, un paio di gallerie d’arte, un giornalaio, e i caffé che invadono di tavolini, seppure ordinati. Alcuni con un’aria alla moda, altri con qualcosa di un altro tempo, e di provincia.
Non è né troppo grande né troppo piccola, questa piazza. Soprattutto, c’è solo un monumento, e non centrale, ma spostato verso il fondo, così lo spazio non è eccessivamente predeterminato, può farsi teatro.
La prima cosa che si vede, arrivando dalla stazione, è una testa enorme e rossa, appoggiata su una gota, con una barba riccia e capelli che sono onde modellate da un vento che non c’è. Lo sguardo è malinconico e obliquo, verso qualcosa di perduto. Manca il resto del corpo, e manca anche il dentro. È vuota, dentro. Allora forse è pura maschera, qualcosa che è caduto e se ne è andato. C’è qualcosa, forse anche nella malinconia, nelle forme tonde, nelle acconciature, nell’essere maschera, che mi fa venire in mente Venezia. Lo stesso vale per le altre due teste, che le stanno dietro, e per una quarta che invece riposa sulla scalinata del duomo ma nella via che si apre a lato. Quest’ultima, proprio perché isolata, sembra ancora più vittima di una casualità distratta e indifferente.
Queste teste, queste maschere, presentano bene in vista dei tasselli di giunzione. Come se dovesse essere reso evidente il loro assemblaggio, esplicitata una loro qualità artificiale, e forse anche una certa precarietà.
(le note sulla mostra dicono: l’artista privilegia la resina, in quanto materiale estremamente contemporaneo, che mescola con semi di amaranto, carne secca, petali di fiori, foglie di tabacco, creando colorazioni e sfumature originali, dove la trasparenza della resina si fonde ai colori della natura e della cultura del Messico. Marmi e bronzi completano il percorso creativo)
Poi, su dei piedistalli di legno grezzo e chiaro, uno per ogni zoccolo, ad un’altezza ben superiore a quella d’uomo, ci sono dei cavalli montati da cavalieri con lance. Ce ne sono in tutto nove, a tre a tre uguali, solo colorati diversamente (bianchi, neri, rossi). I cavalli sono possenti, i cavalieri invece mi danno l’idea di essere spossati, stanchi. Uno in particolare è ripiegato accartocciato su se stesso, come se non vedesse più avanti, in tutti i sensi. La loro materia è abbozzata, non liscia, i contorni paiono quasi di cera colata, e questa non finito dà loro al tempo stesso una grande matericità. Come se fossero fatti di creta, ma come se il loro creatore avesse a un certo punto abbandonato il lavoro.
Tornano da una sconfitta? Sono dei reduci? Hanno un posto dove tornare? L’ultimo cavaliere rosso è in cima alla scalinata che conduce alla chiesa di Sant’Agostino. La sua ombra, a seconda del giorno, gioca con il portale, e forse così ci vuole condurre all’interno.
Dentro è quasi completamente buio. Solo dei fasci di luce bianca, concentrati, collimati, colpiscono le statue estraendole appena dall’oscurità. Sono figure in preda all’oblio, e cieche, come le teste cadute sulla piazza, oppure corpi marchiati dalla sofferenza, attorcigliati, attoniti, slabbrati, in fuga, un dito allungate a spirale verso il cielo e una mano a indicare l’ombra a terra.
Davanti all’altare, una a terra, l’altra in piedi, due enormi ruote su cui a malapena cade la luce. Per capire di cosa siano riempite occorre avvicinarsi. Ecco allora un groviglio indistinto di arti, corpi, visi, tutti mescolati, come si possono immaginare i resti d’un massacro enorme, davanti al quale l’orrore fa muta la parola. Fili di ferro legano, segnano, torturano ancora questi caduti intrecciati corpi.
(le note della mostra dicono: la simbologia del cerchio di corpi tanto cara alla cultura azteca, considerata da Marín il suo reale e genuino background culturale. Le due sculture, dal titolo Chalchihuite, recano un potente messaggio di appartenenza alla cultura e all’arte pre-ispanica.)
Le luci poi creano piccole isole sugli affreschi della chiesa, così anche loro parlano con l’installazione, da una distanza di secoli e di forme, per accenni, per dettagli. Sì, c’è anche una musica inquietante, ma non sarebbe nemmeno necessaria. In questo buio viene da muoversi in punta di piedi, ci si avvicina piano, come per rispetto, a questi corpi dalle superfici scabre, segnate, ferite, anche non finite, forse ancora in evoluzione.
Da dove vengono queste sofferenze? Al di là del fortissimo impatto emotivo, ho amato l’assenza di una connotazione politica precisa. Non ci sono noti simboli forti, non c’è un canale che preconfeziona. Ognuno può mettere dentro questa sofferenza quella di tutti i singoli e i popoli vittime della violenza. Il che non annacqua il messaggio: anche se l’oppressore non è rappresentato, resta fortissima la consapevolezza di cosa l’uomo può arrivare a fare all’uomo. Ha una dimensione universale, come di una potenzialità drammaticamente innestata in noi, come genere umano. Il che non nega la necessaria dimensione politica che si accompagna ad ogni sofferenza storicamente determinata.
La mostra continua nel chiostro, e in alcune stanze che lì si aprono. In una c’è una serie di figure ritte anche se incomplete, chi di braccia, chi di gambe, con corpi da donna ma volti da uomo e viceversa. A queste, sempre col fil di ferro, sono legati altri corpi più piccoli, più dilaniati e incompleti. E il fil di ferro collega i corpi più piccoli e abbozzati alla testa delle figure più grandi. Anche questa sala, dove c’è luce piena, è di forte impatto. Possono essere i fantasmi delle nostre paure, o i fantasmi delle sofferenze. Mi vengono in mente le parole di Primo Levi, da I sommersi e i salvati:
Chi è stato torturato rimane torturato. Chi ha subìto il tormento non potrà più riambientarsi nel mondo, l’abominio per l’annullamento non si estingue mai.
La mostra De 3 en 3 è un’iniziativa dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Pietrasanta in collaborazione con la Galleria Barbara Paci e con l’importante contributo critico di Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani di Roma. Responsabile del progetto espositivo è l’architetto Giulio Lazzotti.
Javier Marin è nato a Uruapan, Michoacán (Mexico) nel 1962. Ha studiato dal 1980 al 1983 presso la Scuola Nazionale di Art Visive (Accademia di San Carlo) dell’Università Nazionale Autonoma del Messico, di Città del Messico dove vive e lavora. Formatosi all’inizio come pittore ed incisore, ha poi condotto la sua indagine artistica verso la scultura in terracotta, resina e bronzo. All’inizio del 1983 ha cominciato a partecipare ad esposizioni collettive mentre è di tre anni più tarda la sua prima personale. Da quel momento, con più di cinquanta mostre personali ed un vasto elenco di mostre collettive, i
l suo lavoro è stato presentato in istituzioni culturali e spazi pubblici di grande importanza in America Latina, Stati Uniti ed Europa. Tra gli eventi europei spiccano: personale nel 2000 presso Espace Pierre Cardin, Parigi; la presenza alla 50th Biennale d’Arte di Venezia del 2003 (Padiglione Messico); la grande installazione pubblica realizzata in Plaza de Cibeles a Madrid nel 2007, e, sempre nello stesso anno, la prima mostra personale dell’artista presso Barbara Paci Galleria d’Arte, a Pietrasanta (Lu).
di Stefano Mola