Diario di scuola
Gennaio 21, 2009 in Libri da Gabriella Grea
Titolo: | Diario di Scuola |
Autore: | Daniel Pennac |
Casa editrice: | Feltrinelli-I Narratori- |
Prezzo: | € 16,00 |
Pagine: | 243 |
Ho in mente di scrivere un libro sulla scuola: non sulla scuola che cambia nella società che cambia, ma su ciò che non cambia mai, su una costante di cui non sento mai parlare: la sofferenza condivisa del somaro, dei genitori e degli insegnanti.
Partiamo dalla dichiarazione d’intenti dell’autore per consigliare la lettura del suo ultimo sforzo compositivo. Leggerlo è quasi un imperativo categorico – oggi che la scuola occupa le prime pagine dei giornali – per chi volesse conoscere davvero il mondo dell’insegnamento e per coloro che non hanno dimenticato il ruolo formativo e, talvolta, distruttivo di maestri e professori incontrati tra i banchi.
3+5+3+5 +6+4: in trentaquattro anni di vita ne ho trascorsi ventisei a scuola, ho cominciato a tre anni con grembiule a quadretti e cestino, per terminare a trenta con camice bianco e valigetta. Sono cambiati la taglia del contenete e l’età del contenuto, ma il mio entusiasmo per l’apprendere, la curiosità per il prossimo capitolo sono rimasti gli stessi. Avrò anche il gene dell’eterno scolaro ipertrofico, ma la mia buona sorte sta nell’avere conosciuto maestri che mi hanno insegnato “a giocare con il sapere”. Come i miei compagni ho imparato a distinguere alla prima occhiata il professore “scalda-cattedra, scansafatiche e somaro”, dall’illuminato formatore che seduce anche lo studente ribelle.
“E’ immediatamente percepibile la presenza del professore calato appieno nella propria classe. Gli studenti la sentono sin dal primo minuto”. Lo si distingue per il “suo modo di guardare, di salutare gli studenti, di prendere possesso della cattedra. Non si è disperso per timore delle loro reazioni, non si è chiuso in se stesso; no, è a suo agio da subito, è presente, distingue ogni volto, la classe esiste subito davanti ai suoi occhi.”
Da generazioni il corpo docente va alla ricerca della buona dottrina, s’indagano i mostri della comunicazione e dell’apprendimento, si calcolano le potenzialità mnesiche dei discenti, saldi sulle certezze che nulla scuote, neppure la smentita quotidiana della realtà, per produrre e riforme. Salvo poi virare di gran furia per evitare l’iceberg dei disastri accumulati. Pennac, anticonformista e controcorrente, suggerisce l’impopolare dettato come “ suono, come racconto, come ragionamento”. Perché “ il significato della lingua si delinea attraverso lo spirito della grammatica. […] I campionati di dizionario facevano il resto. Una specie d’intermezzo sportivo. Consisteva nell’arrivare cronometro alla mano il più in fretta possibile alla parola cercata, di estrarla dal dizionario, di fare la correzione e poi di reimpiantarla nel quaderno collettivo della classe e su un taccuino individuale, prima di passare alla parola seguente”.
“Ragazzi e ragazze della loro generazione, bulli di periferia degli anni settanta, punk o dark degli anni ottanta, neoalternativi degli anni novanta, che si beccavano le mode come uno si becca i microbi,” alle prese con i dettati e con i testi da imparare a memoria. Imparare a memoria? “ Nell’epoca in cui la memoria si misura in giga?” Così facendo “ si ricongiungeranno con l’epoca che precede la scrittura, quando la sopravvivenza del pensiero dipendeva solo dalla nostra voce. Se lei la chiama regressione, io lo chiamo ricongiungimento! Il sapere è anzitutto carnale, le nostre orecchie e i nostri occhi lo captano, la nostra bocca lo trasmette. Certo ci viene dai libri, ma i libri escono da noi. Fa rumore un pensiero, il piacere di leggere è un retaggio del bisogno di dire”. Questo è l’unico inquinamento acustico, cui non porrei limite!
di Gabriella Grea