Donne d’Algeri nei loro appartamenti
Febbraio 23, 2003 in Sudate Carte da Stefania Martini
Testa di giovane donna con gli occhi bendati, il collo rovesciato, i capelli tirati – la caligine della stanza stretta impedisce di vederne il colore – castano chiaro, anzi ramati, è così Sarah? No, neri no…La pelle sembra trasparente, una perla di sudore su una tempia…
La goccia sta per cadere. Quella linea del naso, il labbro inferiore dall’orlo rosa vivo: conosco, riconosco! All’improvviso il profilo comincia a beccheggiare; a destra, a sinistra. Una lenta oscillazione non più accompagnata dalla ninnananna della nutrice che ci riscaldava insieme nel letto d’infanzia alto e cupo. Beccheggia a destra, a sinistra, senza più i pianti di dolore dolce; la perla di sudore diventa una lacrima, poi un’altra.
Così inizia “Donne d’Algeri nei loro appartamenti” (Giunti, 1988) raccolta di racconti scritti da
Assia Djebar, la prima scrittrice algerina che ha messo su carta le problematiche sociali ed esistenziali delle donne che vivono in un paese islamico.
Il titolo è ripreso da quello del famoso quadro che il pittore Delacroix dipinge al ritorno dal suo viaggio in Africa, nel 1832: si ferma solo tre giorni ad Algeri ma rimane folgorato dalle figure femminili che incontra in un vero harem.
I racconti ripercorrono i ricordi, le conversazioni, i sussurri di voci dal timbro femminile che, come sottolinea l’autrice escono da labbra che parlano sotto una maschera; in una lingua che non è mai uscita alla luce del sole, salmodiata, declamata, urlata, recitata a teatro, ma sempre con la bocca e gli occhi immersi nel nero.
I racconti sono scritti in due momenti differenti: nella parte dedicata ad “Oggi” sono collocati due racconti scritti nel 1978; nella sezione “Ieri” i quattro che coprono un arco di tempo che va dal 1959 al 1970.
Ma le donne d’Algeri sono ancora come quelle dipinte da Delacroix? Rinchiuse in un universo chiuso, prigioniere rassegnate del padrone di casa, immerse in un lusso silenzioso, dove nessuno ha il diritto di guardarle?
Le protagoniste dei racconti della Djebar sono sicuramente donne dolenti ma orgogliose delle loro tradizioni, donne velate che si muovono come ombre nelle loro case, tra i cortili, nelle vie della città, per la casbah.
Ma non è la casbah che Pierre Loti descrive in “Le tre dame della Kasbah”, dove splendide odalische, adorne di meravigliosi gioielli guardano il mare fumando narghilè.
E’ strano osservare che in una prima fase dell’evoluzione della condizione della donna algerina, portare il velo è simbolo di “emancipazione”: la donna velata può circolare di giorno per le strade poiché il velo le protegge dagli sguardi degli uomini.
Con la presa di coscienza, che avviene in un secondo tempo, che il velo significa oppressione del corpo e il conseguente rifiuto di indossarlo, le donne tornano ad essere celate alla vista del mondo grazie a sbarre reali (poste a finestre e porte) e psicologiche.
Ma sono anche donne che vivono sulla loro pelle la guerra di liberazione dalla dominazione coloniale francese, guerra che in 7 anni ha provocato più di un milione e mezzo di morti, per lo più civili. Diventano portatrici di bombe, come fossero arance.
Sono donne che vivono l’esilio e parlano delle loro speranze di ritorno in patria.
Sono donne che vivono, che amano.
E dal ’78 sono passati ora altri 25 anni, anni di feroce guerra civile in Algeria, di massacri, di ritorno alla tradizione islamica più intransigente. E oggi, per le strade di Algeri, tra i vicoli di quella che era la casbah più affascinante del Mediterraneo, le donne si muovono ancora come bianchi fantasmi, velate se non addirittura coperte con il chador.
di Stefania Martini