Equatore
Maggio 21, 2006 in Libri da Stefano Mola
Titolo: | Miguel Sousa Tavares |
Autore: | Equatore |
Casa editrice: | Cavallo di ferro |
Prezzo: | € 18,50 |
Pagine: | 492 |
Questo romanzo del portoghese Miguel Sousa Tavares è molte cose. È la storia di un uomo, Luis Bernardo Valença, che all’inzio del libro ci viene presentato come un uomo intelligente, benestante (socio principale di una compagnia di navigazione), raffinato ma senza estenuazioni estetiche né esibizionismi, amante del buon vino, della buona cucina, dei sigari, delle serate tra uomini dove però si trattiene sempre un passo al di qua della volgarità, dotato di una naturale eleganza, amante delle belle donne di cui, come si può capire da questi pochi accenni non manca di fare strage, tanto che lo si potrebbe definire più amante della seduzione, del percorso di caccia che dell’obbiettivo molto meno del dopo.
È la storia del punto di svolta di un paese, il Portogallo, nel momento in cui sta per perdere il suo impero coloniale, agli inizi del 900. Uno dei luoghi dove il compasso della Storia gira è un minuscolo possedimento, due isole disperse nell’Oceano Atlantico, Sao Tomé e Principe. Terre selvagge, afose, dove il clima e la natura dimostrano a ogni passo la loro supremazia sull’uomo, con acquazzoni serali improvvisi fatti di gocce grandi come ananas. Eppure, nella loro inospitale piccolezza, economicamente rappresentano molto: producono cacao, e molto. Se lo possono permettere perché sfruttano manodopera a basso costo: uomini e donne venuti per così dire importati dall’Africa, dalle altre colonie portoghesi, Angola principalmente. Da un punto di vista strettamente tecnico, hanno un contratto che li vincola per cinque anni. Parte del loro salario viene trattenuto in un fondo per il rimpatrio, cui possono accedere se allo scadere dei cinque anni desiderano ritornare in patria. Ma il contratto esiste anche se viene firmato da analfabeti? Quanti di loro sono consapevoli dei loro diritti? Quanto invece la loro condizione è assimilabile alla schiavitù? Non è difficile immaginare una risposta a queste domande. Per ragioni commerciali e non certo umanitarie l’Inghilterra sostiene che i lavoratori sono schiavi. Per dimostrarlo, intende mandare sull’isola un console con l’incarico di stendere un rapporto. Se la schiavitù sarà dimostrata, scatteranno delle sanzioni.
Che cosa c’entra Luis Bernardo con Sao Tomé? Il re del Portogallo gli chiede di accettare l’incarico di governatore dell’isola. Il suo difficile compito sarà di convincere il console inglese che gli africani lavorano, non sono schiavi. Luis Bernardo non è un eroe. È un uomo che si conosce abbastanza bene, anche nelle sue debolezze e che le accetta. Ha un ego preciso, definito, un gusto per piaceri coltivati con moderazione. Non ha una volontà di affermazione sul mondo, non ha mai ricercato il potere come gratificazione, come testimonianza della sua esistenza. Gode di sostanze correttamente dimensionate alla soddisfazione dei suoi piaceri. Eppure sente in qualche modo il richiamo della responsabilità etica: il bisogno di affermare, grazie alla grandezza di un gesto inatteso, la legittimità di un’esistenza fino ad allora gradevole ed oziosa [peg. 91]. Pertanto accetta e parte. Nulla è apparentemente più lontano da lui di quell’isola inospitale dove sarà solo, dove non potrà coltivare alcuno dei piaceri che facevano la sua esistenza a Lisbona, degli intrighi, delle bassezze, della meschinità e della brutalità che diventeranno invece il suo pane quotidiano. Paradossalmente e drammaticamente, saranno proprio il console inglese e sua moglie le uniche persone con cui potrà intrattenere un rapporto umano. Il resto della trama è bene che lo scopriate da soli.
La grandezza del romanzo (perché bisogna subito dire che questo libro è molto bello) sta nella capacità di Tavares di mettere in scena i due piani, quello umano, privato e quello storico politico, e di farli cozzare, interagire, mescolare, senza trascurare le mezze tinte, i grigi. Rende benissimo una cosa: che nella vita, quando ci chiniamo a guardarla veramente da vicino, è difficile tracciare un confine netto anche in presenza di regole astratte. E lo fa attraverso la lente di un’esistenza, quella di Luis Bernardo, che è al tempo stesso la più e la meno adatta al ruolo. Adatta perché è un uomo di cultura e intelligenza nel senso vero e quindi non nozionistico che devono avere queste due parole. Inadeguato perché assolutamente incapace di svolgere un ruolo politico nel senso sporco che questa parola purtroppo ormai ha.
Vorrei anche sgombrare il campo di una possibile ambiguità che le mie parole potrebbero aver creato: questo libro non è un pamphlet. È basato su una robusta documentazione storica, certo. Ma è il racconto di un’esistenza a tutto tondo: i personaggi vivono, mangiano, sudano, hanno debolezze, amano disperatamente (perché tra le altre cose, questo libro racconta anche una grande storia d’amore). Qui sta la forza e il pregio: nella capacità di intrecciare strettamente delle vicende umane, fatte di sentimenti e riflessioni e individualità e caratteri, al tempo in cui vivono.
Il tutto raccontato col piacere della lentezza dello sguardo, un indugio di indolente compiacimento e feroce precisione al tempo stesso. Una narrazione si direbbe di un altro tempo, che sorprende e avvolge senza soffocare, in una contemporaneità o dove sembra che la parola velocità sia ancor più celebrata che ai tempi di Marinetti. Una solidità di impianto e una capacità di costruzione della storia assolutamente ammirevoli.
di Stefano Mola