Fata Morgana
Agosto 27, 2005 in Libri da Stefano Mola
Titolo: | Fata Morgana |
Autore: | Gianni Celati |
Casa editrice: | Feltrinelli |
Prezzo: | € 15,00 |
Pagine: | 192 |
Che cosa fa Gianni Celati in Fata Morgana? Apparentemente, una specie di resoconto pseudo scientifico-filosofico degli usi e dei costumi di una immaginaria popolazione, i Gamuna. Vivono in una landa desolata stretta tra un massiccio basaltico su cui pochi osano avventurarsi e un deserto sabbioso che alle prime piogge si trasforma in pericoloso pantano. Non sono autoctoni, ma sono arrivati lì in un passato imprecisato. Non hanno costruito la loro capitale, chiamata forse non correttamente Gamuna Valley, ma si sono limitati ad occupare gli edifici presenti ed abbandonati dalla popolazione loro precedente, scomparsa nel nulla. Curiosamente e significativamente, questi costruzioni sono di foggia occidentale.
La voce narrante appartiene a un anonimo scrittore che vive in un villaggio normanno, uno spazio per lo più vuoto, caratterizzato di minimi rumori, dove la presenza umana è marginale. Una provincia senza segni particolari. Lo scrittore utilizza per il suo saggio fonti diverse: le lettere e i taccuini dell’amico viaggiatore Victor Astafali, gli articoli di un aviatore argentino, Augustin Bonetti, il diario della suora vietnamita Tran. Talvolta, la sua immaginazione, il suo congetturare che spesso nasce da spunti provenienti dal paesaggio francese che lo circonda.
Proprio per queste caratteristiche, il racconto è velato da una dimensione di incertezza: né chi scrive, né noi che leggiamo, possiamo essere sicuri della veridicità delle affermazioni circa i Gamuna. A maggior ragione, perché appaiono radicalmente diversi e alieni dal nostro mondo. Ad esempio la loro lingua, tonale come il cinese, è difficilissima da apprendere. L’intonazione con cui vengono pronunciate le parole cambia nel corso della giornata, fino a perdersi la sera in un mormorio quasi indistinto.
I Gamuna non fanno praticamente nulla. Vivono in un permanente stato di indolenza, refrattari soprattutto alla manutenzione delle abitazioni, non opponendosi in alcun modo al loro progressivo decadimento. Gli uomini adulti sono fragili, confusi, incerti, schiacciati dall’incanto greve della terra, la forza che trascina ogni cosa verso il basso. Le donne sono più vitali, lanciano sguardi della civetta losca, ma per lo più rifuggono gli uomini adulti che del resto le cercano unicamente a scopo sessuale. Piuttosto, si vengono travolte da passioni improvvise e irresistibili per altre donne o per ragazzi della loro stessa famiglia. I bambini sono ferocissimi e girano in terrorizzanti bande fino al rito di passaggio in cui si piegano all’indolenza caratteristica dell’età adulta.
Passano per le terre dei Gamuna anche sporadici stranieri, in gran parte avventurieri, che assai difficilmente riescono a sopportare il contatto con la sensazioni di vuoto che i Gamuna trasmettono loro, e spesso reagiscono con la violenza. Secondo lil diario della sorella Tran: Credono d’avere diritto a una vita speciale, fatta per gente speciale come loro; e cercandola devono sempre fuggire da dove sono, siccome hanno sempre l’idea che la vita altrove debba essere meno noiosa e meno deprimente di qui. Per loro tutto scorre su uno schermo cinematografico dove vedono solo ombre più o meno attraenti, che servono a scacciare ogni senso di monotonia e inutilità della vita.
Per i Gamuna, tutto è illusione, ognuno vive prigioniero dei suoi miraggi, fatalmente convinto che la vita sia soltanto un brevissimo bagliore d’iridescenza. Di qui l’inutilità d’ogni sforzo, persino i bollori del sesso. Desiderano avvicinarsi alla morte come un’ombra che scompare da un muro senza lasciare traccia. Il ta è il concetto chiave, approssimativamente traducibile come il questo-qui-ed ora. Ancora dal diario della sorella Tran: Ora so che esiste soltanto il questo, il qui, l’ora, il momento e il luogo, il presente e tutto questo forma l’esteriorità incalcolabile. Il resto è la nube di fantasmi che avvolge ogni cosa, è l’iridescenza dei momenti, è il l’idea con cui il ta dà ad ognuno l’illusione di essere qualcosa di diverso da un arbusto, da un sasso, da un’ombra sul muro
Il libro procede per capitoli tematici, alternando le diverse fonti, e facendo ogni tanto rimblazare il punto di vista sui minimi accadimenti della campagna normanna che circonda lo scrittore.
Confrontando i brani qui sopra citati, non è difficile rendersi conto che in realtà Celati usa il racconto filosofico etnografico per parlare di noi (un po’ nella tradizione del comte filosophique illuminista). Un noi che non intenderei tanto in un’accezione di occidente decaduto e degradato contrapposto a qualcos’altro, quanto un noi esistenziale e totalizzante. Sembra un approdo quasi definitivo, una specie di summa teologica del suo percorso precedente (non a caso, un suo libro del 1986 si intitola Quattro novelle sulle apparenze) volto a investigare l’illusorietà dell’esperienza. Un approdo che sembra quasi mettere in dubbio la possibilità di ogni racconto ulteriore. Una descrizione desolantemente apocalittica di ogni nostra illusione. Qualcosa di cui può essere utile acquisire consapevolezza. Il problema si può porre allora così: c’è ancora la possibilità di una pars costruens?
di Stefano Mola