Finestra sulla Goliardia
Giugno 8, 2001 in il Traspiratore da Redazione
Il Consiglio Superiore
Al primo dopoguerra, seguirono anni durante i quali gli ordini goliardici dimostrarono una straordinaria fecondità. Ad essi furono assegnate strutture fuori delle comuni opinioni, con gerarchie che scherzosamente intendevano imitare le cariche e le istituzioni delle città di appartenenza. Dogi, Pontefici, Duchi, Gran Maestri con Ministri, Ciambellani ed Ambasciatori, costumi, piume, statuti, protocolli e codici divennero normale amministrazione nel rinato mondo goliardico.
Su tutti gli ordini era sovrano il Consiglio Superiore della Goliardia Italiana, fondato a Genova nel 1961 e composto da nove principi. Il Consiglio si era reso necessario per arginare la prepotenza e l’invadenza di alcuni partiti politici che, già a Firenze nel 1951, avevano invano cercato di strumentalizzare il congresso di Goliardia. Comunque, il 16 luglio 1967, a Rapallo fu stilato l’ultimo statuto del Consiglio Superiore che, tra l’altro, afferma: “…L’Ordine goliardico deve essere apolitico e anticonfessionale nel modo più assoluto, diretto ed indiretto”. S’intende, con questo, che un Ordine goliardico non può e non deve in alcun modo scendere a contatto con il mondo della politica partitica, contaminando, con tali relazioni, i principi stessi su cui si fonda il concetto di assoluta libertà ed indipendenza degli ordini.
La necessità continua di riunirsi a congresso e sfornare statuti derivava dall’estremo tentativo di arginare la crisi in atto. Laddove, infatti, la crisi era assente, vedi Perugia, l’allora Califfo delle Calabrie poteva comunicare al Presidente del Consiglio Superiore, Lello e Caro, che l’Ordine del Califfato era “apolitico, anticonfessionale e… perfettamente affanculo”.
Gli anni ‘60
Di fronte alla situazione sociale degli anni del boom economico, il comportamento del goliardo non poteva che concretizzarsi nel far finta di credere. Al suo fianco, infatti, aveva una società le cui azioni erano quasi sempre improntate ad una mortificante e presuntuosa gravità comportamentale. Prefetti, questori, ministri e uomini politici in genere non perdevano occasione alcuna per evidenziare l’apparato sfarzoso e a volte bizzarro della loro condizione privilegiata. Un apparato che i goliardi, aderendo alla loro ricca tradizione, vollero senz’altro imitare per metterne in evidenza le profonde pieghe contraddittorie. L’usar sopruso nei confronti delle matricole era, quindi, la logica e semplice proiezione delle soverchierie attuate dalle eccellenze varie, che stavano al di fuori degli atenei.
Volendo approfondire tale aspetto, ci accorgeremmo che un simile proposito non poteva avere come obiettivo la sola esagerazione ad effetto comico del “modus vivendi” della società contemporanea, bensì la possibilità di operare liberamente, senza, cioè, destare allarmi e preoccupazioni nelle autorità. Coloro i quali erano nel mirino della satira goliardica avevano perfetta coscienza della consistenza caricaturale della vita sociale e politica in quell’apparato goliardico, ma preferivano masticare amaro e far finta di stare al giuoco.
Fino ad oggi
Dopo il “’69”, la Goliardia fu considerata “volgare espressione borghese” di una falsa “élite”. Per qualche tempo i canti allora si spensero, l’esuberanza gioiosa, le “Feriae Matricularum” fecero posto all’isterismo politico. Chiuso il sepolcro della tradizione goliardica, nelle Università, per una falsa interpretazione dei valori giovanili, fece la sua comparsa la violenza e, da quel momento, per lunghi anni, senza che non si avesse neppure coscienza dell’infamia che essa rappresentava, il mimetismo politico e la menzogna a tutti i livelli sostituirono il “papiro”, il tintinnare dei bicchieri, i canti gioiosi fatti di Mutandine colorate, Gaudeamus igitur, Bruceremo il Vaticano.
Una reazione di fiducia, aspettativa di rinascita della spensieratezza, una positiva considerazione nella funzione educativa della Goliardia sembrano essersi risvegliate solo in quest’ultimo decennio.
di Giovanni Ruotolo