Il Campiello a Paola Mastrocola
Settembre 21, 2004 in Libri da Stefano Mola
Partiamo, giustamente e doverosamente, dalla fine. Paola Mastrocola, torinese, ha vinto la XLII edizione del Premio Campiello. La scrittrice era già entrata in cinquina all’esordio, con la La gallina volante. Il suo terzo romanzo, Una barca nel bosco (Guanda), vince per due voti: 86 a 84 su La masseria delle allodole (Rizzoli), della docente padovana Antonia Arslan, favorita della vigilia. Quest’ultima aveva infatti vinto il premio Il campiello secondo noi, manifestazione che si tiene a Predazzo, dove alcuni lettori si cimentano in una specie di sondaggio pre-elettorale. Sembra che spesso il vincitore di Predazzo venga poi confermato anche a Venezia.
Così non è stato quest’anno. Per quanto possono valere (e interessare) le mie sofferenze di tifoso letterario, dopo alcune edizioni in cui ho visto i miei libri preferiti soccombere, quest’anno per me ha vinto il libro migliore presente in cinquina. La storia di Gaspare, ragazzo di talento che la scuola frustra e sforma anziché formare, e che finirà per fare del suo appartamento una foresta, mi ha colpito sia per fantasia (tutti gli altri traevano ispirazione da vicende realmente accadute), sia per la capacità di porre domande forti su che cosa stiamo facendo del nostro futuro, ovvero delle nostre giovani generazioni.
Parlando sempre con la maglia dell’ultrà sulle spalle, personalmente avrei preferito trovare davanti alla Arslan sia Carmine Abate (La festa del ritorno, Mondadori, ha raccolto 52 voti) sia Luigi Guarnieri, 25 preferenze per il suo La doppia vita di Vermeer (Mondadori), le stesse del convitato di pietra Alberto Bevilacqua, che a Venezia proprio non è venuto. Ma di lui parleremo più tardi.
Ora è il momento di allargare un attimo il campo di vista. Finora abbiamo tenuto in primo piano i libri e gli autori. Su quale terreno poggiavano i piedi della sbigottita Mastrocola mentre riceveva la vera da pozzo, consegnatale da una delle ragazze del Campiello (quest’anno in un bellissimo vestito lungo color oro)? Non più sul cortile di Palazzo Ducale, ma sul palco del rinato Teatro la Fenice. Il colpo d’occhio è stupendo. Stucchi dorati fanno rimbalzare ovunque la luce, trionfano il legno e il rosso delle poltroncine, il primo impatto è decisamente un’emozione. Ci è sembrato importante da parte del Campiello aver festeggiato con questa serata non solo la consegna del premio ma nel contempo il ritorno alla vita del teatro, che a novembre ospiterà la Traviata.
La serata è stata condotta da Bruno Vespa che ha gigioneggiato sul palco come un calabrone, cercando con le sue battute soprattutto Renato Mannheimer, uno dei componenti non letterati della giuria presieduta da Lina Wertmüller. L’unico problema di Vespa è sentire quasi subito la nostalgia della sua stessa voce: riesce ad ascoltare le risposte alle domande che pone per un tempo molto breve, dopodiché riparte ronzando verso altri obiettivi. Al suo fianco, Serena Autieri ha sfoggiato tre cose: una scollatura vertiginosa, la propensione alla gaffe (dopo poche parole ha detto che lo scrittore Tim Parks, altro componente della giuria dei letterati, un quasi ultras del Verona, è tifoso del Chievo) e una voce stupenda. Molto bella la sua intepretazione di Era de maggio, e il duetto con Lucio Dalla in Caruso. Il cantante bolognese ha anche cantato la soporifera Amore disperato, in cui l’unica cosa degna di nota ci è sembrata la presenza del coro della Fenice. L’eccessivo tasso di napoletanità (le canzoni, la Autieri, e mettiamoci pure la Parrella, vincitrice del Campiello Opera Prima) generava qualche problema di identità in loggione.
Ora, alcune menzioni speciali. Complimenti alla casa editrice Guanda, che vince per il secondo anno consecutivo il Campiello. Una rosa per Elena Loewenthal. Sollecitata da Vespa, ha rivendicato con orgoglio di essere una letterata, in un mondo dove ormai tutti sembrano fare cose diverse da quello che dovrebbe essere il loro mestiere. Un inchino a Valeria Parrella. Di fronte ai pungiglioni di Vespa, che tentavano di regalarla nel duplice e folcloristico ruolo di napoletana in primis, e di donna in secundis (lo stupore di Vespa di fronte a questi trionfi femminili sapeva un po’ di buon selvaggio) ha saputo opporre sciabolate precise portate con grazia, e una sicurezza solo leggermente ironica, che non è mai scivolata nella supponenza. Vespa si è ritirato in buon ordine. Un personaggio, ma in primo luogo una scrittrice, da tenere d’occhio.
Usciamo dalla Fenice e facciamo qualche passo indietro. Torniamo al mattino, nello splendido convento restaurato a due passi da Rialto che ora ospita il Telecom Italia Future Centre. Lì si è tenuta la conferenza stampa di presentazione dei finalisti, ma soprattutto la designazione del vincitore del Campiello Giovani, meritorio premio riservato a tutti coloro che hanno tra 15 e 20 anni. Come è questa annata? A leggere i racconti, per l’abbondanza di squartamenti e splatterismi, sembrava di avere in mano Gioventù cannibale, la famigerata antologia Einaudi (tanto per capire da che parte sto, ancora rimpiango i soldi che avevo speso a suo tempo per comprarla).
La qualità di scrittura è comunque in generale buona: su tutti spicca a mio modo di vedere Francesco Andreani, per consapevolezza e padronanza della forma, anche se il racconto si perde decisamente nel finale, ed è esclusivamente basato su un gioco letterario che dopo poco si fa artificioso. Per originalità di trama, e per il tocco in cui troviamo quasi tracce di pseudoBaricco, citiamo Rachele Bianchi Porro. Infine, il vincitore, Francesco Lucioli, che era già alla sua terza presenza nella cinquina dei finalisti di questo premio, giunto alla sua nona edizione. Come già nelle prove degli anni passati, non ci ha convinto. La scrittura è troppo piana e piena di auto-domande. La storia abbastanza scontata e priva di svolte: un ragazzo che non sa che fare di se stesso scappa su un’isola greca, fa il gelataio sotto l’ala di un greco molto filosofo e si innamora di una ragazza che è in crisi con il suo ragazzo, rimasto in Italia: come finirà? Comunque, il racconto di Lucioli è il più verosimile e il più alieno dalla autoreferenzialità letteraria.
Infine, Bevilacqua. Lo scrittore parmense, come sopra detto, non ha ritenuto di cogliere l’occasione per fare un giro in laguna (nonostante il tempo splendido e le numerosissime mostre a disposizione, tra cui consigliamo Dalì a Palazzo Grassi). Pare che sia rimasto turbato dall’eccessivo clamore suscitato dalla vittoria della Arslan ne Il campiello secondo noi. Pare che questo risultato avrebbe potuto condizionare la giuria. Lorenzo Mondo ha liquidato la questione citando l’umoralità del personaggio.
A noi invece piace ricordare che i giurati del Campiello sono trecento lettori sparsi in tutta Italia, i cui nominativi rimangono segreti fino alle 17:00 del giorno della premiazione. Tra questi, i cosiddetti VIP sono 20. E gli altri? Ci sono 3 agricoltori, 4 artisti, 4 sportivi, 9 giornalisti, 32 impiegati, 30 insegnanti, 27 pensionati, 60 lettrici, 3 librai, 31 tra operatori economici, dirigenti e artigiani, 9 operai,
4 politici, 31 professionisti, 24 pubblici funzionari, 4 religiosi, 25 studenti. Insomma, uno spaccato del paese. Sono rappresentate praticamente tutte le province d’Italia, da Isernia ad Aosta, da Catanzaro a Moncalieri. Mi sembra che questo elenco sia una garanzia sufficiente, nonché una delle molte cose belle di questo premio. Forse a volte si dimentica che i libri possono andare anche nelle mani della gente comune, e soprattutto si sottovaluta che sempre questa famosa gente comune sia anche capace di pensare con la propria testa.
Un’ultima menzione: l’organizzazione, anche quest’anno, è stata impeccabile. Complimenti, ancora una volta, agli Industriali del Veneto e tutti coloro, e sono tanti, che hanno lavorato per questa serata e per questo premio.
di Stefano Mola