Il richiamo di un animo inquieto
Ottobre 17, 2002 in Arte da Sonia Gallesio
Sono spesse le pitture ad olio del Calandri, intense e cariche di colore rappreso, torbide e cupe nello stesso modo in cui appaiono leggeri, freschi e luminosi alcuni dei suoi acquerelli. E’ facile venire rapiti, è impossibile negarlo, dalla forza comunicativa – vibrante e densa – delle opere di questo affascinante artista contemporaneo da pochi anni defunto. L’incisore e pittore torinese non è stato un gran viaggiatore ma, curiosamente, ritroviamo in parte dei suoi acquerelli la traduzione di sapori provenienti da altre terre – forse ad esprimere, oltre al suo rapporto intenso con il gusto, il desiderio di penetrare atmosfere di luoghi lontani. La raffigurazione del cibo si traduce, dunque, in arte luminosa e gioiosa e diventa espressione di appagamento e di desiderio di vita. Ecco allora offerti, come su una lunga tavolata immaginaria, innumerevoli polpi grassi e carnosi, che ci rimandano ad ambientazioni mediterranee, ed ancora succosi e turgidi fichi che sembrano emanare il calore delle terre siciliane. Scopriamo un artista dai forti contrasti – un genio complesso, spinto da gran fervore – forse più cupo agli albori e più celebrativo durante la maturazione. Non solo elogio al cibo, dunque, ma racconti di inquietudini ed interpretazioni che talvolta provocano sgomento nei visitatori intenti ad osservare falene, scarafaggi ed insetti di vario genere, babbuini, gufi e teschi di animali. Maestro esimio del colore e della tecnica, il Calandri riesce a trasferire solarità, vivacità e desiderio in un suo acquerello nello stesso modo in cui, per mezzo di un altro, comunica immobilità e desolazione, apprensione e fissità del pensiero. Tra le innumerevoli tele ritroviamo, inoltre, con un pizzico di orgoglio cittadino, varie rappresentazioni di ‘scorci popolari’, facilmente riconoscibili, raffiguranti cortili di vecchi palazzi del centro – con i vecchi ballatoi ed i panni stesi al vento, omaggi graditissimi alla nostra Torino.
Ben altre atmosfere si possono respirare osservando molte delle restanti pitture ad olio, realizzate per mezzo di una procedura che prevede l’inserimento nel dipinto di figure di carta, ritagliate da varie fonti e successivamente incollate, che non fanno altro che conferire alle opere connotazioni ancora più inquietanti. Con la suddetta tecnica, Calandri ha dato vita a numerosi dipinti riproducenti scenografie quasi irreali, che sembrano essere state estrapolate da avventure oniriche oppure essere il risultato di un viaggio fra i pensieri umani più oscuri (“Il padiglione del mistero”, 1965). L’uso del rosso acceso, vivissimo, rimanda all’intensità del desiderio ma – si suppone – anche all’ardere della pena e della colpa – e quei fondi neri, quegli scenari foschi e cupi, sicuramente riconducono all’inquietudine, al dubbio, forse al disagio e al forzato silenzio. Tra le svariate ambientazioni più volte proposte, da ricordare il circo ed il teatro (un’opera fra tante: “La maschera”, 1968), luoghi ai quali viene conferita volutamente un’atmosfera carica di magnetismo, satura di segreti. I richiami all’infanzia sono palesati dalle molteplici rappresentazioni di giostre con cavalli e dalla presenza, qua e là, di bambine in abitini leggeri o di visi di infanti ritagliati: quali desideri rievoca la fanciullezza? Innumerevoli le sagome di statue raffiguranti corpi nudi di donna, che sottolineano maggiormente i forti rimandi sessuali e donano ai dipinti una connotazione artificiosa, come a tradurre un desiderio al di là del lecito, stridente – forse quasi innaturale – oppure un richiamo insistente, prepotente o ancora un segreto che riaffiora in superficie, un bisogno che irrompe implacabile. In ultima analisi, ritroviamo in Calandri – interprete poliedrico di passioni e turbamenti – un noto binomio ispiratore facente parte da sempre della natura umana: cibo ed eros, forse due modi diversi per appagare una stessa ancestrale pulsione.
La presente recensione è stata scritta in occasione della mostra “Mario Calandri, artista delle cose”, tenutasi a Palazzo Bricherasio dal 26 gennaio al 4 marzo 2001.
di Sonia Gallesio