Impressioni su Lucrezia Borgia
Aprile 15, 2008 in Spettacoli da Stefano Mola
Questa volta partiamo da una voce: quella di Dimitra Theodossiou. Donizetti, Lucrezia Borgia. A lei, Dimitra, tocca la parte della crudele infelice. Madre d’un figlio che non la conosce, e di cui il marito, pure lui all’oscuro, è geloso. Ora, perché Dimitra, prima di tutti gli altri, dell’orchestra, prima della scenografia, del direttore, di luci e costumi? Non perché la sua parte racchiuda delle arie memorabili, qualcosa che prima o poi tutti abbiamo canticchiato, magari grazie a una pubblicità o ai mondiali di calcio. La Lucrezia, musicalmente parlando e tanto per dichiarare da che angolo parte chi scrive, non mi entusiasma. Succedono in scena le peggio nere cose, ma la tinta donizettiana non sempre riesce a restituircele. C’è sempre prima o poi un gorgheggio che ti sembra un guardarsi allo specchio. È il belcanto, bellezza. Per dire, mi piacciono il confronto tra Alfonso e Rustighello, nel primo atto, e la scena nel palazzo, quella del primo avvelenamento di Gennaro. Altro non saprei molto citare, o voler riascoltare. Ma questo, sia chiaro, è un problema mio.
Però poi conta come fai le cose. Dimitra Theodossiou non ha solo una bella voce, anche potente, quando serve stenderti e stupirti. Ha soprattutto un modo di scolpire, di abbracciarsi attorno alle parole, come a tirarle fuori da qualcosa, o meglio, come a tirare fuori dalle parole e dalla musica qualcosa. Ci mette su un colore, delle ombre e delle luci. Le fa sentire vere, pronunciate in quel momento e non tanto replicate. Non sembrano venire fuori come una delle interpretazioni, come dischi della stessa opera su uno scaffale, come una replica di qualcosa scritto secoli fa. Sembrano parole sue prestate alla musica. Tutto questo viene fuori nei piccoli volumi, nei momenti di raccordo. È una di quelle volte che a teatro ti dici: ma quando torna in scena? Una voce che mi ha fatto pensare: vorrei ascoltarla fare Violetta Valery. Per lei, applausi come cascate del Niagara e Brava! urlati più volte, sia durante sia alla fine.
Tutto questo è già un ottimo motivo per passare una sera a teatro, se uno pensa che tra le cose più meravigliose di questo mondo una bella voce femminile occupa uno dei primi posti, come me, per esempio. Venendo al resto, la compagnia di canto è tutta di ottimo livello. Pulito e rotondo il Gennaro di José Bros, gelosissimo e permaloso il giusto il Don Alfonso che ci ha dato Michele Pertusi. Vivace e passionale il Maffo Orsini di Kate Aldrich. La bacchetta di Bruno Campanella ci è sembrata sicura e leggera il giusto.
Meno convincente la regia di Francesco Bellotto. Una specie di struttura parallepipeda con archi quadrati, in mattoni, è l’asse portante d’ogni cosa. Essenziale, ma un po’ anonima. Non suggerisce nessuno spazio simbolico (almeno a me). Si raccorda poco con i costumi, invece perfettamente in epoca, se si escludono alcuni simil samurai che appaiono ogni tanto (sul cui costumi tintinnano campanellini). L’unico elemento d’invenzione è la presenza in scena di alcuni personaggi da volto cereo, tra cui una bambina vestita di rosso, che incombono silenziosamente di tanto in tanto. Sono il dramma di Lucrezia, il suo rimpianto d’una vita diversa, la negazione del rapporto col figlio. Del resto, e qui torniamo al mio problema, la vicenda di Lucrezia è un noir, caratterizzato da diverse cose improbabili, che poco si presta a grandi reinterpretazioni, come invece è stato per il titolo precedente, la Salome di Strauss.
di Stefano Mola