Intervista a Mario Acampa
Ottobre 30, 2008 in Attualità da Redazione
L’attore protagonista dell’Asino d’oro si descrive in una piacevole chiacchierata.
Classe 1987, attore, Mario Acampa ha iniziato molto presto a recitare, seguendo un iter ordinato. Corsi, corsi, e ancora corsi, scuole di formazione per il teatro, saggi. Un pezzo dopo l’altro, Mario ha collezionato responsabilità sempre maggiori sul palco, fino al lancio da protagonista nello spettacolo “L’asino d’oro” di Mesturino e Angione.
In questi giorni lo abbiamo visto nel ruolo di Lucio al Teatro Erba, e fra poco tornerà in scena per “Cabiria, il kolossal!”, a fianco di Enrico Fasella e Alberto Barbi, per la regia di Filippo Crivelli.
Con i suoi 21 anni, Mario è un artista in divenire, ma è molto maturato professionalmente. Complici anche l’atmosfera serena e le motivazioni fornite da Torino Spettacoli e il Teatro Nuovo.
Mario, nonostante questi impegni frequenti anche l’Università, giusto?
Sì, è vero. Sono al terzo anno di giurisprudenza, ma non ho ancora deciso dove specializzarmi. Però di una cosa sono sicuro, studiando legge conservi e acquisti il senso di giustizia, ed è una cosa che tento di portare anche nel teatro.
Quindi è anche un fatto di coerenza…
Non so se si possa parlare di coerenza. Come persona sicuramente, ma in teatro, ad esempio, si impara che meno si è coerenti, e meglio è. Come attore è giusto mettersi in discussione in continuazione, così da tentare in ogni spettacolo un approccio diverso. In un certo senso è inevitabile, perché se trovi il personaggio che ti calza, te lo porti dietro per sempre.
Nel tuo caso c’è un personaggio in particolare?
Beh, sì. Io ho iniziato in “Torino Spettacoli” con il “Miles Gloriosus” di Plauto, nel quale interpretavo il ruolo del servo Palestrione. È uno spettacolo che mi è rimasto nel cuore, proprio perché è stato il mio primo vero ruolo importante. Con tutto quello che ne consegue a livello di emozione e di carica emotiva. Un personaggio così, molto forte, molto lavorato, molto classico, rischi di ripeterlo anche quando reciti altro. Anche solo in un gesto, un portamento, una battuta.
Tuttavia l’esperienza e la tecnica insegnano a conservare le conquiste ben riuscite e a scartare quelle poco proficue.
Certo, perché è sempre vero che sul palco vince chi riesce ad arrangiarsi meglio, e riprendere cose che si sa già che vanno bene, può essere molto utile. Ma ripetersi, alla fine, diventa poco stimolante anche per l’attore stesso.
A quando risale il tuo debutto teatrale?
In effetti ho iniziato da poco, appena da cinque, sei anni. Ma ho cominciato fin dal Liceo, con un laboratorio teatrale. All’epoca ero molto grasso.
Non ci credo!
Credici pure, ero enorme e poi sono dimagrito di botto.
Lì al laboratorio erano tutti più grandi di me, e io ero un pivellino. Figurati, facevo seconda liceo… e nel giro di un anno il regista mi ha dato un ruolo da protagonista. Non sapevo più che fare per l’emozione, invece è andata molto bene. Così ho fatto un altro laboratorio e poi sono passato in una compagnia amatoriale. Alla fine del liceo mi sono trovato a decidere la mia formazione, ed ho scelto giurisprudenza.
Però non hai perso di vista il teatro…
Non avrei mai potuto lasciarlo, neanche volendo. Quando ami un’arte ti rendi conto che non sei solo tu a sceglierla, ma che è lei a trascinarti. In un certo senso, è proprio il teatro che ti viene a prendere. Una volta entrati, è come avere fatto un patto con il diavolo. Dopo neanche due mesi di lezione in facoltà, mi sono detto basta. Dovevo assolutamente fare una scuola di recitazione, anche solo per un paio d’ore. E mi sono iscritto alla “Tofano”. Poi sono passato quasi subito alla scuola del Teatro Nuovo.
E, detto sinceramente, è stata la cosa più bella che mi potesse capitare.
Dopo di che hai iniziato con “Torino Spettacoli”.
Prima di interpretare Palestrione nel Miles, ho fatto un musical con la compagnia giovane di Torino spettacoli.
E dopo è arrivata l’interpretazione di Giuseppe Erba, nello spettacolo a lui dedicato, “Nella pancia della balena”.
Un ruolo di notevole responsabilità…
Non potrebbe essere altrimenti. Giuseppe Erba è stato un uomo importantissimo per il teatro torinese, e poterlo interpretare è stato un onore.
E dopo hai avuto altri ruoli.
Ho lavorato nel “Il Mago di Oz”, poi nell’“Osteria della Posta” con Enrico Fasella, e infine in “Grazia Deledda, l’ultima moda è il nobel”, sempre per la regia di Fasella.
Il tuo ultimo spettacolo è “L’Asino d’oro”. Quanto c’è in te del protagonista Lucio?
A dir la verità, non trovo molta corrispondenza fra il mio modo di essere e quello del Lucio della prima fase. Intendo quello spavaldo, sicuro di sé, che tende a mettersi in mostra di fronte a tutte le donne che incontra. Non sento di definirmi così audace, come Lucio prima della metamorfosi. Per farti un esempio, ogni volta che devo prendere una piccola decisione, anche minima, chiamo decine di persone per avere una conferma da tutte!
Piuttosto ho un buon rapporto con la mia ansia.
Interessante. L’ansia fornisce ciò che l’audacia non concede?
Intendiamoci, preferirei non averla, ma è anche l’unica che ti fa mettere in discussione tutto. È una cosa che mi piace nel contesto teatrale, perché ti permette di controllare il personaggio un numero infinito di volte.
Forse, però, il regista è meno contento…
Lucio però ha un’evoluzione molto particolare…
Esattamente. Passa da uno stato di confusione e molto terreno, per arrivare alla fine alla quasi santità.
È successo qualcosa di particolare durante “L’Asino d’oro”, che ti piace ricordare?
Premettiamo una cosa: non so perché, ma in ogni spettacolo me ne capita sempre qualcuna. Soprattutto nelle produzioni davvero complesse, come nell’Asino d’oro. Questo è il caso delle teste giganti, molto belle, molto buffe, ma che avevano l’inconveniente di essere difficili da portare. Chi le porta, ha una gestualità da caricatura, ma il movimento è dovuto ad una complicazione reale. Le teste sono grandissime. Una volta messe senti la tua voce rimbombare, e alla fine vedi pochissimo. A quel punto è facilissimo non vedere scalini, scontrarsi con le persone. Intelligentemente, la regia non ha scartato questa caratteristica, ma anzi l’ha valorizzata per dare più gusto allo spettacolo.
Anche la tua maschera ha avuto lo stesso inconveniente?
La testa d’asino all’inizio era completamente chiusa. Davvero imbarazzante, soprattutto perché non riuscivo a sentire bene la mia voce. Mi sembrava di urlare e invece stavo parlando in maniera normale. Alla fine l’abbiamo cambiata, con una semplice ma brillante idea di utilizzare un casco da ciclista come base. Leggera, comoda, molto funzionale.
Anche la trasformazione di Lucio in scena è molto rapida. Avviene tutto in un minuto o poco più, quando ne servirebbero molti altri. Così, quando verso la fine, si chiudono le porte della pagoda, mi devo cambiare ad una velocità impressionante. E a quel punto qualsiasi cosa può succedere, la fretta fa brutti scherzi…
Sono un curioso… ti è mai capitato di dimenticare una battuta?
Certo, interi monologhi! (Sorride) Scherzo, ovviamente. Ma il rischio si presenta in continuazione. Per fortuna non ho mai fatto un “buco”, e spero che non mi capiti mai!
E come ci si comporta quando il rischio si presenta?
I rischi sono diversi e quindi non c’è un unico modo per risolverli. La memoria funziona in modo strano: si ricordano alcune cose perfettamente, e altre un po’ meno. Per assurdo, si riesce a ricordare intere catene di parole, magari molto complesse e slegate fra di loro, e invece dimenticare frasi semplici, di quelle che si possono usare tutti giorni.
C’è anche da dire che, lavorando stretto contatto con la compagnia, si finisce per mettersi a mente le parti degli altri. A quel punto, se capita un parziale “buco”, c’è sempre qualcuno che ti porge una domanda o una battuta che ti permette di ricordare.
La concentrazione fa poi il resto…
Sicuramente la concentrazione che si ha sul palco, condivisa da tutti, può fare questo e altro. Comunque, è pur vero che durante ogni recita si cambia sempre qualcosa. Quando si ha la padronanza e la sicurezza, non ha più importanza che si dica quella frase piuttosto che un’altra molto simile.
Piuttosto, per un attore è importante ricordarsi di essere in scena con quel personaggio. Tutto il resto viene di conseguenza. E ben venga, anche perché spesso capita di fare uno spettacolo non in perfette condizioni fisiche, magari con il mal di testa o con qualche altro fastidio. Se ogni volta che hai una fitta di dolore, ti distrai e salti una riga, sei rovinato.
A questo punto immagino che la “prima” sia molto emozionante…
La “prima” non dovrebbe esistere, bisognerebbe cancellarla! No, ecco in realtà è bellissima. Le emozioni che concede la “prima” non la dà nessuna replica successiva. Ovviamente non è detto che sia la migliore, anzi. Ma qui subentra un discorso strano. Quando lo spettacolo è ben avviato si entra nell’automatismo, e si tende ad impersonare meglio una parte. L’attore è un attore quando recita, quando si dimentica di dovere essere naturale… e in realtà non è.
Si potrebbe definire quasi un paradosso…
È più che un paradosso. Spesso, se si cerca di essere a tutti costi naturale, si finisce per essere l’opposto. Ha perfettamente ragione Adriana Innocenti, quando dice che non si deve mai piangere realmente in scena. In “Grazia Deledda” l’ho appurato personalmente. Durante la prima, ero così emozionato nella scena più drammatica (quella di Tiziano Terzani), che avevo davvero le lacrime agli occhi. Chi mi conosce, se n’è accorto subito.
Quando capita, diventa fisicamente impossibile la recitazione. Si stringe la gola, ed emettere suoni è difficile. A quel punto c’è solo più l’uomo sul palco, ma non il personaggio. E non si fa bene il proprio lavoro. Il momento più emozionante rischia di essere quello più sbagliato.
Come riesci a dimenticare la tensione durante lo spettacolo?
Non puoi dimenticarla, semplicemente la incanali. Oppure fai altro. Per quello che mi riguarda, rifletto in continuazione. Ad ogni battuta, penso: questa l’ho detta troppo lenta, oppure troppo veloce. E via così.
Ma la tensione non si dimentica mai. Ci si lancia, al massimo della concentrazione, e a quel punto non si ha più paura di fare brutta figura.
E meno male che è così. La perdita della tensione o dell’emozione, spesso coincide con un distacco verso la professione. E allora è meglio lasciar perdere. Spero che sia mai il mio caso.
Tornando all’Università, quanto si influenzano tra di loro lo studio in facoltà e la recitazione?
È una cosa affascinante fare due cose contemporaneamente. Non è affatto detto che si ostacolino l’una con l’altra, anzi. Due discipline molto distanti fra di loro tendono ad amplificarsi a vicenda. Durante un esame orale bisogna essere un po’ attore… e nella preparazione di uno spettacolo, a contatto con il regista, è necessario rapportarsi con la disciplina.
E il tuo prossimo spettacolo?
Si tratta di Cabiria. Il mio ruolo è abbastanza semplice, ma solo apparentemente. Ci sono dei momenti musicali con un numero impressionante di accenti. Se ne dimentichi uno, e non giri la testa proprio in quel momento, rischia di rovinare un intero quadro, o togli una risata allo spettacolo. Non è affatto semplice quindi, perché tutto va centellinato.
La logica di “Torino Spettacoli” è quella di valorizzare più il gruppo che il singolo attore. Cosa ne pensi?
Il teatro deve insegnare soprattutto questo, che la buona riuscita di uno spettacolo è un lavoro di simbiosi. Si lavora come in una squadra. Ogni elemento, ogni ruolo è funzionale al buon esito della recita.
Costruire una buona armonia con la compagnia è non solo molto bello, ma fondamentale. Non tutto dipende dall’attore, ed è questo forse l’insegnamento più bello. Non è il Lucio di Mario Acampa che fa lo spettacolo, ma Lucio con…
Vorresti mai smettere?
Assolutamente no. Anche se, per essere sincero, qualche minuto prima dell’inizio dello spettacolo, vorrei essere da tutt’altra parte. È proprio in quel momento che mi chiedo cosa ci faccio lì. Ma due minuti dopo la fine, ho già la risposta. Ed è una di quelle consapevolezze che rende meravigliosa la professione di attore.
Leggi la recensione dell’Asino d’oro
di Davide Greco