Intervista a Vig, il disegnatore di Brendon e di Mayapan
Novembre 7, 2007 in Arte da Redazione
La sperimentazione ti ha portato ad avere stili completamente differenti nel corso degli anni. Quando hai iniziato a lavorare per Bonelli avevi una linea che dai più venne definita alla “Frank Miller”. Invece mi ricordo che il tuo punto di partenza era Alberto Breccia, o sbaglio?
Sì, esatto. E Breccia, a sua volta, è il punto di partenza di Frank Miller. Certo, la diffusione degli albi di Miller è molto più ampia, ma Breccia ha inventato tantissimo nel fumetto. I miei primi speciali di Mister No, a metà degli anni novanta, erano decisamente “brecciani”, persino alcuni particolari li disegnavo come lui.
Invece l’ultimo speciale di Mister No del luglio del 2001, di 160 pagine, è decisamente diverso…
Completamente. Ma non è stata una decisione mia. Me l’hanno proprio chiesto. L’indicazione era di adottare uno stile che rientrasse un po’ di più nei parametri della Bonelli. In “Dark City” utilizzavo le masse e non i segni per disegnare gli spazi e i personaggi. Era una scelta molto particolare che poi ho dovuto abbandonare, per la distanza che aveva con lo stile abituale di Mister No. Invece nello Speciale del 2001 ho preferito un segno più vicino ai maestri del western francese. Blueberry e compagnia, insomma.
E giusto per non fare confusione, bisogna dire che da quando hai iniziato a disegnare per Brendon, hai cambiato di nuovo stile.
Quello è un altro stile ancora, è vero. Ma è una cosa che ci hanno insegnato bene alla scuola di fumetto, di non fossilizzarsi mai su un unico stile ma di sperimentare sempre, cambiare.
Al limite con il camaleontismo.
Eccerto. Il camaleontismo mi è sempre appartenuto. Se poi aggiungi che quando ho iniziato non sapevo proprio che fare, il quadro si completa. Facevo una cosa, mi piaceva e continuavo così; ne facevo un’altra, mi piaceva anche quella e cambiavo di nuovo. Stavo facendo la fine dell’asino di Buridano, che morì di fame e di sete perché era indeciso se prima bere o mangiare. Non è facile risolvere un problema di questo tipo, perché ogni scelta è esclusione.
Rodin diceva che in arte bisogna saper sacrificare.
È esattamente questo il problema. Altrimenti si rischia di diventare dispersivi e di non approfondire nulla. Ma di solito dico: “Se non faccio ricerca quando ho tempo, quando la faccio?”. E infatti sperimentare durante il lavoro può essere molto costoso.
Quindi questi cambiamenti come li definiresti: evoluzione, sperimentazione…
Direi una sorta di evoluzione circolare. Le primissime cose che ho fatto somigliavano molto ai lavori di Bilal e Moebius, forse più il primo che il secondo. E mettevo tantissimi tratteggi. Appena entrato alla scuola di fumetto, Laura Scarpa ci ha chiesto di disegnare, come prima lezione, un personaggio che si accendeva la sigaretta. Con lo stile che avevamo in quel momento.
Beh, io ho disegnato un uomo, a biro, con un tratteggio incrociato molto vicino a quello di Bilal. E adesso che sono tornato alla linea chiara, è un po’ come un ritorno alle origini.
Allora non potevo immaginarlo, ma ora so che disegnare come in “Dark City”, tutto per masse, mi ha aiutato a saper mettere le ombre sul colore. Attualmente, quando coloro, penso tutto tridimensionalmente: la linea, la massa, il contorno, eccetera. So come si muove la luce su un corpo. Ma non l’avrei mai saputo così, se prima non avessi fatto altro.
Ti faccio una domanda banale. Ti senti più artista o più artigiano?
Assolutamente artista. Anche se l’artigianalità è fondamentale. Personalmente mi sento un artista che ha imparato a fare l’artigiano.
Una volta mi interessava la qualità e poco la produzione, invece ho imparato che è necessario rapportarsi con la quantità. Più si produce e più si è sul mercato, indubbiamente, il proprio nome circola, viene conosciuto, e via. Fare un libro bellissimo in vent’anni, nel mio mestiere, è del tutto inutile. Al contrario, invece, chi nello stesso periodo ne ha realizza cinquanta, gode di molta più notorietà. Noi facciamo fumetti, e i fumetti hanno tantissimi disegni. Non è il quadro su cui uno può stare sopra tre mesi.
E dunque il fumetto è arte?
Nel fumetto ci sono dei capolavori e delle emerite schifezze. Come in letteratura, ci sono dei libri importanti e dei libri che non servono a nessuno. Il cinema è arte, ma quanto film brutti vengono fatti in un anno? La maggior parte è orribile.
Oltretutto il fumetto perché è una forma d’arte ancora fortemente popolare, con una fruibilità enorme, di massa, a volte folkloristica. Non mi è mai piaciuta l’idea di un’arte elitaria, con uno o più compratori che si possono permettere i tuoi quadri, li acquistano e se li mettono in casa. E che ovviamente nessuno potrà vedere mai.
Quanto cambia, invece, lo sguardo di tutti i giorni in chi usa la propria osservazione per lavoro?
Cambia notevolmente perché l’osservazione è estremamente condizionata dal lavoro. Ti dirò di più: quando osservo una figura per più di venti secondi, quasi mi accorgo che la sto ridisegnando. Ne seguo i contorni, le sfumature, le proporzioni come se dovessi riportarla su carta, ma tutto con un atteggiamento meccanico. Qualsiasi pezzo di mondo può diventare oggetto di studio.
Non parliamo poi di quando uno si mette a guardare una persona: asimettrie, difetti, afisicità si notano con una velocità sorprendente. Purtroppo o per fortuna, l’osservazione è un compagno di viaggio che non ti abbandona mai, e non mi sento nemmeno di dire che sia una caratteristica a vantaggio o svantaggio di chi ce l’ha. Esiste e basta.
Forse ce l’hanno più persone di quanto si creda, sicuramente tutti coloro che in qualche modo, per professione, costruiscono forme.
Cosa consiglieresti ad un giovane che voglia fare il fumettista?
Gli direi di seguire questa strada, solo se proprio non può farne a meno. Ma anche lo avvertirei che è una strada difficilissima. Forse è duro, ma è necessario questo disincanto. Nessuno lo sta aspettando a braccia aperte, e semmai è vero il contrario: ovvero che lo si riceverà con le braccia conserte e lo sguardo torvo.
All’inizio, purtroppo, i “no” non si contano e il guadagno c’è, ma solo da un certo livello in poi. E il brutto è che si rischia di non arrivarci mai nemmeno a quel livello, perché la scrematura è altissima.
Una volta esistevano le botteghe d’arte, e si poteva imparare il mestiere da un fumettista e da un maestro, ma adesso le botteghe non esistono praticamente più. Insomma, il mestiere, oggi, si impara da soli. È un cammino tutto in solitaria, ed è forse l’aspetto meno edificante, a parte le cifre basse che circolano in certe case editrici.
Cenni bibliografici (le opere più importanti del Vig).
Primi lavori:
Lavori per Sergio Bonelli Editore:
1. Speciale “Mister No” n.15. “Una storia del west”. Su testi di M. Masiero.
Lavori per altre case editrici:
E per concludere… le tre cose del Vig che non ti aspetteresti!
Leggi la parte precedente dell’intervista cliccando qui sotto:
Intervista a Joseph Viglioglia parte prima
Intervista a Joseph Viglioglia parte seconda: Vig ed il disegno
Intervista a Joseph Viglioglia parte terza: “Mayapan”
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di Davide Greco