Kenya: savana e baraccopoli
Febbraio 12, 2001 in Viaggi e Turismo da Redazione
Sto sola davanti al foglio bianco, anzi ad essere precisi si tratta di uno schermo bianco, che si accende soltanto grazie al generatore, perché Nairobi continua ad essere afflitta da regolari black-out di dodici ore ciascuno. Provo a rilassarmi, ovviamente senza riuscirci, perché lo schermo di un computer e’ una delle cose meno rilassanti che io personalmente conosca, e provo a lasciare scorrere i pensieri: pensieri sciolti all’imbrunire, il che significa pensieri sciolti alle diciotto e trenta, perché a Nairobi si sta vicino all’Equatore e vicino all’Equatore il giorno e la notte si equivalgono, dodici ore buio e dodici ore luce, dalle sei e mezza alle sei e mezza e dalle sei e mezza alle sei e mezza.
Qui il problema delle mezze stagioni non ce lo si pone neanche, casomai c’e’ il problema delle stagioni delle piogge, la grande e la piccola, e quando queste mancano all’appello si che sono guai seri…
A proposito di guai, però, noi finiremo con l’averli per colpa del nostro Pajero di terza mano che fuma come un matatu (i famigerati pulmini-taxi collettivi locali); forse bisognerà fare pulire gli iniettori e già che ci siamo magari rimettere in asse i pneumatici. Comunque, in questa città di quartieri ricchi e baraccopoli nessuno si stupisce per un po’ di fumo: fumano, nero e denso, almeno tre quarti dei veicoli a motore circolanti; fumano i numerosi falò accesi saltuariamente e senza motivi precisi lungo le strade; fumano, più o meno spesso, i veicoli incendiati nel corso delle frequenti manifestazioni di protesta; fuma a volte qualche incendio davvero grosso, tipo quello che a fine agosto ha distrutto un centro commerciale non lontano da centro città; fumano quasi quotidianamente i piccoli incendi che scoppiano nelle baraccopoli, ai quali basta mandare in fumo otto-dieci metri quadrati per distruggere tutto quello che una famiglia possiede e magari anche cancellare il futuro di due o tre bambini che non si e’ fatto a tempo a tirare fuori.
Le famiglie, dentro una baraccopoli, vivono in tuguri costruiti con quello che si trova: lamiera, legno, cartone, e per rivestire l’interno giornali vecchi, col risultato che notizie e pubblicità di dieci anni addietro ti scrutano un po’ grottesche nell’oscurità. Dentro alla stanza-casa, si potranno forse trovare un paio di sgabelli, un letto in genere protetto da una tenda e destinato ad accogliere l’intera famiglia, poi una pentola, qualche ciotola, un catino, un pezzo di sapone, insomma tutto quello che si ha la fortuna di possedere o trovare; una dispensa non c’e’ quasi mai, perché non si ha mai oggi il cibo per domani: qui ogni giorno ha la sua pena, e la pena più grande e’ riuscire a guadagnare qualcosa per mettere insieme il pasto quotidiano per la famiglia.
La stanza-casa si apre su uno degli innumerevoli vicoletti in cui chi non ha o non cerca un lavoro fuori (donne, vecchi, bambini) passa le giornate, visto che “dentro” e’ troppo caldo e troppo buio.
Ti sbucano dappertutto torme di bambini che giocano fra le dense pozzanghere di questi vasti territori a massima densità umana e sistema fognario inesistente, e ti chiedi come il colera possa limitarsi a casi individuali e non esplodere a proporzioni epidemiche. Comunque, in genere, qui chi si ammala muore: per mancanza di cure, per mancanza di soldi, per mancanza di igiene, per mancanza di cibo, per mancanza di stato sociale, per mancanza di solidarietà del Nord del Mondo, a volte anche per mancanza di voglia di lottare: ci si arrende al primo fallimento, forse il futuro e’ comunque così “corto”, così povero di possibilità, che si lotta di meno per avere il diritto a viverlo; o forse, più semplicemente, bisogna mangiare due volte al giorno per avere le energie sufficienti a lottare.
Eppure stiamo al centro del Kenya, e a nominarlo la maggior parte dei miei compatrioti penserà a Karen Blixen e a Joy Adamson (quella di Nata Libera: chi ha più di trent’anni si rammenterà senz’altro della leonessa Elsa), e alla tragedia dei rinoceronti estinti ed all’importanza della salvaguardia di una fauna straordinariamente ricca in erbivori, felini, volatili, i cui profili eleganti si stagliano sull’immancabile sfondo di savana con acacie, cioè sull’immagine archetipica dell’Africa nell’immaginario collettivo europeo. Ed infatti, basta uscire da Nairobi in direzione Nord per ricominciare ad illudersi; passate un paio di baraccopoli, incontriamo prima il profilo vulcanico del Longonot, e poi la serie dei laghi del Rift, Naivasha, Nakuru rosa di fenicotteri, Bogoria ancora rosa di fenicotteri, Baringo con le sue isole… Dopo, tutto inizia ancora a cambiare, la strada diventa pista sterrata e il Kenya fittamente popolato delle Highlands Centrali sfuma nei grandi ed aridi e vuoti spazi settentrionali.
Spazi: lunghi tratti di strada da percorrere senza incontrare ostacoli, panorami azzurri (o grigi, non importa) su chilometri di cielo, possibilità di correre se solo se ne ha voglia, o anche di stare male, ma vedendo il sole, la pianura, il profilo degli alberi, il mondo di cui siamo fauna, il nostro ecosistema.
Spazi: quello che chi nella baraccopoli ci e’ nato (e cominciano a essere in tanti) non ha MAI visto; e a così pochi chilometri dall’Africa di Karen Blixen, per giunta.
di raffa