L’artigiano curioso

Febbraio 7, 2003 in Libri da Stefano Mola

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Orlando Perera, “L’artigiano curioso” con fotografie di Mauro Raffini, Daniela Piazza Editore, pp. 120

33438(1)Questo volume è dedicato all’artigianato piemontese “altro”, cioè a quelle attività che non rientrano negli altri undici disciplinari attualmente riconosciuti dalla Regione Piemonte. Rientrano in questo “resto del mondo” dell’artigianato piemontese tanto gli ombrellai come chi scolpisce blocchetti di resina epossidica, per esempio.

Io non ho alcuna dimestichezza con la materia e la manualità. Non mi ricordo mai se per svitare occorre girare in senso orario oppure antiorario. Proprio per questo sono affascinato da chi invece ha confidenza, o forse addirittura seduzione, per piegare la materia tridimensionale e grezza fino a farla coincidere con le immagini che ha dentro alla testa. Non ci sono comode equazioni per descrivere qual è la pressione giusta da esercitare su un blocco di cera, oppure radiografie per sapere con certezza che quel pezzo di legno va bene e quello vicino invece no. Sarà una visione romantico-gotica, ma in questo contatto tra due tipi di materia (il corpo dell’artigiano, come il nostro, è anche materia) c’è un travaso di vita, di quella parte di vita che non è processo biologico, che è la conoscenza. Ovvero, proprio di quanto ci fa diversi dalla materia inanimata: la quale però, sotto le mani dell’artigiano, in un certo senso si anima, accogliendo unicità.

Eppure, soltanto certi occhi e certe mani possono farlo. C’entra come è fatta l’elica del DNA. Ma non solo: ci vuole una storia. Fatta di passione, allenamento, sconfitte, deviazioni, aggiramenti, appostamenti, silenzi, parole, osservazione. Qualcosa che può coincidere con una vita, nella misura in cui il lavoro che facciamo, quando è alimentato dalla passione, sconfina nella ragion d’essere di un’esistenza. Per questo il vero prodotto artigianale non può che essere unico, così come sono unici i percorsi che portano le persone in un certo momento in un qualche luogo a fare una determinata cosa. Tanto per portare un esempio tratto dal libro: saper fare gli ombrelli per molto tempo in Piemonte ha voluto dire essere nati e cresciuti in una manciata di paesi tra il lago Maggiore e quello d’Orta. Il mestiere era così gelosamente custodito che i Lusciàt, cioè gli ombrellai, crearono una specie di lingua tutta loro, il Tarùsc.

Quindi, Orlando Perera per descrivere le diverse attività artigianali passa attraverso il racconto della vita delle persone. Cerca di dipanare l’intreccio di DNA e territorio, di accadimenti necessari e casuali. Parte sempre da lì, dal raccontarci come e perché una persona e una attività sono arrivate qui, adesso. Perché le nostre storie personali si mescolano inevitabilmente con la Storia, con mode e bisogni che cambiano, nascono e muoiono. Così nascono, muoiono e cambiano le attività artigianali. Prendiamo le candele, ad esempio: da simbolo di povertà, o mero strumento per fronteggiare l’emergenza, sono diventate un inflazionato accessorio alla moda.

Oppure prendiamo la vicenda di Giovanni Aghetta, classe 1969, in principio laccatore e doratore. Ma un giorno bussa alla sua porta il professor Giacobini, attuale direttore del Museo di d’Anatomia Umana dell’Università di Torino. C’è da restaurare la collezione di statue di cera che riproducono come è fatto il nostro corpo dentro, sotto la pelle, nelle sue svariate, curiose, talvolta macabre forme (alcune le trovate riprodotte nelle bellissime foto di Mauro Raffini, su cui torneremo più avanti). Uno scherzetto: dieci anni per centocinquanta statue. Un lavoro inventato sul campo, con umiltà, senza maestri se non un libro.

Così Perera oltre che dai discendenti dei Lùsciat, dagli artigiani della cera, dalla curiosa vicenda di Aghetta, ci accompagna a vedere le scope di saggina di Mauro Di Crescenzo. Ci fa incontrare Renzo Zucca che scolpisce in resina epossidica i prototipi che serviranno da base per le sorprese degli ovetti Kinder. Poi troviamo le maschere di lattice di Michele Guaschino, che in plastica ha fatto anche i cioccolatini per le pubblicità di Caffarel e Ferrero. Poi scultori di talco…

Ma le storie dell’artigianato non sono soltanto curiose o di successo. Non tutti gli oggetti un tempo poveri diventano moda, superfluo o (quasi) lusso, come le candele. Ci sono anche cose nate povere che restano povere, e strade che non portano da nessuna parte. Conoscenze e sapienze ora sterili. Parlo della storia che chiude il libro, bella nella sua struggente malinconia, per quella sua patina di antico, di povertà, per quel suo sapore di vita sorpassata, vista da un finestrino e lasciata indietro. Giovanni Negro, magnin. Ovvero chi nelle piazze un tempo rifaceva la stagnatura alle pentole di rame. Sveglie all’alba, poi camminare con gli attrezzi sulle spalle, risalendo le frazioni da Ceres a Forno Alpi Graie, lavoro all’aperto. Tempi in cui non si buttava via niente. Ora, dopo aver fatto per un po’ il panettiere, ha ripreso l’antico lavoro. Ma le pentole in rame non usano più, è difficile anche solo trovare lo stagno di qualità. Ogni tanto lo chiamano in una fiera, come una curiosità.

Tra tutte le fotografie che corredano il libro, è qui che Mauro Raffini secondo me integra al massimo livello il testo leggero, preciso e partecipe di Perera. Quell’immagine di Negro a pagina 117, il bonet in testa, lo sguardo rassegnato perduto leggermente verso destra, a fissare di lato rispetto all’obbiettivo qualcosa al di fuori della scena, probabilmente lontano non tanto nello spazio quanto perso in un altro tempo, le mani segnate da una vita di lavoro appoggiate l’una a una pertola, l’altra al mantice e dietro, oltre alla strada asfaltata un paesaggio sfocato, è un riassunto splendido e commovente. Così come quella che apre il capitolo, a pagina 112, per la sua inquadratura obliqua, come la figura fosse stata spostata, lasciata incurantemente in bilico e non potesse, o non fosse più così importante o necessario, rimetterla in piedi.

Ma anche tutti gli altri scatti di Raffini sono molto belli. Oscillano tra l’iperrealismo del dettaglio in primissimo piano degli oggetti, dei manufatti, e la documentazione delle persone al lavoro, oppure sorridenti accanto ai loro manufatti. Il loro valore sta anche nella funzionalità, nella capacità di essere complementari al testo.

Un libro curioso, interessante, uno sguardo verso mondi e sapienze lontanissimi tra loro e da noi, reso in modo graficamente impeccabile.

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di Stefano Mola