L’osteria nuova
Ottobre 26, 2001 in Libri da Gustare da Stefano Mola
Alberto Capatti, “L’osteria nuova”, Slow Food Editore, pagg. 224, Lire 24.000
Le parole. Le parole a volte sono etichette sopra scatole. Scatole allineate su scaffali che arrivano fino al soffitto, in stanze magari buie. Che fatica cercare una scala, prendere un lume, salire lassù, per rovistare nella scatola, capire veramente cosa c’è dentro, cercare la carta d’identità della parola, studiarne la storia. Bisognerebbe farla percorrere dal dubbio, la parola, prima di metterla fuori nel mondo (pensiamo anche solo un attimo alla scatola con l’etichetta “amore”: e qui chiudiamo subito la parentesi…).
Prendiamo invece “Osteria”. Che cos’è l’osteria? Sembra facile. Verrebbe da rispondere quasi con scherno, sembra impossibile avere dei dubbi. Ma se insistessimo, se ci chiedessimo in cosa l’osteria si differenzia da una trattoria? E taverna, è la stessa cosa? E la bettola, il trani, il bàcaro, la gargotta? La piola? Non per nulla, questo interessante saggio di Alberto Capatti inizia proprio con un capitolo interamente dedicato a tutte le possibili declinazioni e denominazioni dell’archetipo di “locale pubblico con mescita di vino e servizio di trattoria” (la parte tra virgolette viene dal dizionario etimologico Zanichelli, e ci mette subito in difficoltà: nel definire l’osteria cita la trattoria: allora non si chiude in se stessa… malignamente, potremmo dire che mentre “trattoria” viene dal francese “traiteur”, e viene citato il 1648, osteria, che viene dal latino, ha una citazione del Villani datata 1363…)
Ecco il problema delle scatole. Una scatola implica tracciare un confine, definire un certo volume limitato. Ci starà tutto dentro? In questa crudele logica binaria del dentro-o-fuori, qualcosa drammaticamente a metà, che non riusciremo a spingere dentro del tutto ci sarà di sicuro. Ecco cosa succede quando cerchiamo di mettere ordine tra le migliaia di sfumature che assume una qualsiasi attività umana. E mica una qualsiasi: implica dare del vino e magari anche un piatto caldo (e forse da dormire?).
Allora, non c’è solo il problema del confine della scatola. Mangiare e bere non sono rimasti immutati nel corso del tempo. Così come non sono rimaste immutate le persone che possiamo immaginare dentro un’osteria. Perché dall’osteria della Luna Piena dei Promessi Sposi, a certe Hostarie di oggi, con quella pretenziosa H, ce ne corrono di secoli e di mutamenti sociali. Alberto Capatti fa proprio questo: partendo dalle descrizioni, dai libri che dall’800 sono stati dedicati all’osteria, traccia un percorso che permette di leggere l’evoluzione dell’incarnazione del concetto di “Osteria” parallelamente a quella della società italiana.
Possiamo così scoprire che una certa idea dell’osteria, legata al territorio e a una certa composizione sociale, non può esistere più perché è la società ad essere cambiata. Così come possiamo riflettere sul fatto che adesso attribuiamo all’osteria una specie di legame quasi disperato con la genuinità dei cibi e col territorio, proprio perché questo legame si è dissolto nel tempo. Il “prodotto tipico e genuino” è un concetto molto moderno: ai primi del 900 era probabilmente privo di significato. La fine dell’osteria così come storicamente la si può intendere, apre allora altre possibilità: la ristorazione “slow”, così come proprio Slow Food la intende, come “desiderio di luoghi semplici ma veri, ricchi di calore, di piatti non anonimi ma ben radicati nella tradizione regionale” (dall’epilogo, in calce al libro, a cura di Paola Gho). Con tutti i suoi problemi, a partire da quello del riuscire a tramandare. Ma vale veramente la pena di ripercorrere insieme ad Alberto Capatti la storia di questa scatola “Osteria”: come tutte le storie, ci serve a capire meglio il nostro presente.
di Stefano Mola