L’undicesimo uomo
Gennaio 12, 2009 in Racconti da Barbara Novarese
L’undicesimo uomo aveva trascorso metà della sua vita a chiedersi “Perché” e avrebbe trascorso l’altra metà alla ricerca di una risposta.
Non era stato facile orientarsi verso un solo “Perché”: ce n’erano troppi che necessitavano una spiegazione. Erano tutti importanti, tutti fondamentali per conoscere e, alcuni di questi, non potevano esistere senza gli altri.
L’undicesimo uomo aveva costruito una serra, “il mio mondo” diceva. L’aveva suddivisa in quattro parti, cui accedere secondo un preciso ordine: l’ingresso principale rappresentava l’unica via di accesso per la primavera, la primavera per l’estate, l’estate per l’autunno, l’autunno per l’inverno.
Dall’inverno si accedeva al corpo centrale, una sala ideale in cui la temperatura non scendeva mai sotto i 25 gradi né saliva al di sopra; il clima non era troppo umido né troppo secco ed un suolo di morbida sabbia massaggiava i piedi scalzi di chi vi sostava. A sud si trovava la zona notte, a nord la zona giorno. Un torrente d’acqua fresca e cristallina scorreva da est verso ovest, dividendo in una metà perfetta quell’area di benessere che rappresentava anche l’univa via d’uscita dalla serra.
Anni di studi, di tentativi, di progetti sbagliati si intrecciavano con momenti di sconforto e delusione. Poi, accadde qualcosa di inaspettato: un piccolo seme germogliò; il miracolo era compiuto. La serra era terminata. Ancora più bella di quanto l’avesse immaginata. Dai germogli spuntavano piantine, crescevano foglie, sbocciavano fiori producendo altra vita. L’essenza dell’esistere stava acquistando il controllo e, prima che l’undicesimo uomo prendesse coscienza, la serra iniziò il suo processo autogenerativo. Le stagioni controllavano la temperatura assicurandosi un ecosistema perfetto come nessuna macchina sarebbe stata in grado di fare con maggior eccellenza.
“Intrigante” pensavano alcuni, “Inquietante” dicevano altri eppure tutti bramavano dal desiderio di passeggiare tra le stagioni e di poter sostare nella “stanza senza tempo”.
Intorno all’uomo erano sorte leggende e storie che sconfinavano tra il magico e l’irrazionale.
Alcuni fantasticavano di aver visto, attraverso i vetri, strane creature dai mille colori e si raccontava che chiunque fosse entrato nella serra, non ne sarebbero mai più uscito.
L’undicesimo uomo sedeva in posizione centrale intorno ad un tavolo ovale di legno massiccio, circondato da altri dieci undicesimi uomini. L’unico posto vuoto era quello centrale, in corrispondenza dell’undicesimo uomo. Non era casuale, poiché rappresentava una specie di spiraglio verso il mondo esterno; nella stessa stanza, infatti, si trovavano donne e uomini seduti su poltroncine colorate, orientate verso il tavolo come al cinema verso lo schermo: undici posti per undici file.
L’undicesimo uomo parlava; gli altri undicesimi uomini commentavano, rettificavano e approfondivano gli argomenti dell’undicesimo uomo, mentre gli spettatori prendevano appunti.
Coloro che si trovavano nella stanza del tavolo ovale non erano mai stati nella serra e, ugualmente, coloro che erano transitati dalla serra non erano mai entrati nella stanza del tavolo ovale.
Durante un incontro, l’undicesimo uomo si accorse di desiderare cose incompatibili con la centralità sua posizione. Quindi pensò: “Vorrei proporre altre cose, vorrei seguire i miei desideri senza l’obbligo dell’equilibrio! Perché proprio io sto seduto in questo posto?”. I dubbi della sua anima rimasero tali ed egli continuò a recitare la parte destinatagli con voce ferma, grave ed autorevole. La sera, quando rientrò a casa, annotò l’ennesimo “Perché” nel “diario dei dubbi”, ormai logoro dal tempo e dall’usura.
Alcune volte, l’undicesimo uomo percepiva il peso opprimente di una prigionia senza sbarre né catene, altre volte si riteneva inadeguato e stanco; avrebbe ceduto quell’incarico con immenso sollievo a chiunque lo avesse chiesto.
Nessuno lo avrebbe mai chiesto.
L’unica consolazione era la coscienza di sè stesso.
L’undicesimo uomo aveva molti nomi, undici o forse più. Uno per ogni epoca in cui era vissuto ed avevano tutti dei significati specifici per coloro che in quel tempo vissero.
Questo era il tempo di Mita, ma a lui non piaceva particolarmente. Sentiva che il nome non gli apparteneva e avrebbe voluto cambiarlo con qualcosa di più altisonante, magari aggiungendo un aggettivo: Mita il grande oppure il Re Mita, Mita l’invincibile… e stava seduto con le gambe incrociate sulla montagna più alta a fantasticare di come modificare ogni cosa del mondo che si estendeva sotto di lui, nella valle.
“Che noia l’eternità” pensava e strappava fili d’erba gettandoli al vento, mentre per gli uomini trascorrevano i millenni.
di Barbara Novarese