La cucina di Sicania
Ottobre 30, 2001 in Libri da Gustare da Stefano Mola
Salvatore Vullo, “La cucina di Sicania” Gruppo Edicom, pag. 145 Lire 25.000
Ascoltiamo Tucidide sulla Sicilia: “[…] sembra l’abbiano abitata per primi i Sicani, come essi stessi dicono, e prima (dei Lestrigoni e Ciclopi) per il fatto che erano autoctoni; mentre secondo verità, erano Iberi scacciati dai Liguri dal fiume Sicano nell’Iberia. E da costoro l’Isola fu detta Sicania, mentre prima si chiamava Trinacria; ed anche ora abitano le regioni occidentali della Sicilia”. Richiamare fin dal titolo, dalla notte dei tempi, la componente autoctona è un messaggio forte: coinvolge il mito, la memoria, le radici, quindi un legame forte, quasi arcaico, con la propria terra.
Terra intesa come il luogo dove affondano le mie radici, un insieme di paesaggi, persone e tradizioni che hanno fatto me come uomo; ma al tempo stesso come terreno in cui affondano le radici i prodotti della natura che mi nutrono (o mi hanno nutrito, se la mia condizione è la lontananza, nello spazio e quindi duplice, anche nel tempo).
Allora raccontare la cucina, cioè i modi in cui vengono trasformati i prodotti della terra, può essere uno dei modi più forti per riaffermare e al tempo stesso recuperare il legame con la propria terra in tutti i sensi.
È difficile sfuggire al gioco quasi inestricabile dei richiami: “sensi” potrebbe giocare qui non solo il ruolo di significati, ma soprattutto dell’insieme dei modi con cui percepiamo il mondo. Cucinare e quindi mangiare è forse uno tra i processi più completi non solo di percezione ma anche di appropriazione del mondo (i prodotti della terra divengono parte di noi). Mangiare è anche, spesso, una grande rappresentazione (la vista…): si legga ad esempio la bellissima descrizione della tavola di San Giuseppe, tavola imbandita per voto da una famiglia a favore di 13 persone scelte tra le più povere del paese.
Salvatore Vullo compie dunque un viaggio in tutti questi sensi nella propria memoria, da Marianopoli (provincia di Caltanissetta, suo paese natale), per restituirci le ricette della sua terra, il loro legame con le tradizioni religiose (sapevate che i ceci venivano portati il 23 gennaio a benedire in chiesa, poi consumati dai fedeli tranne alcuni che venivano conservati come protezione taumaturgica dai temporali?). Non solo allora la caponatina, la pasta coi broccoli, i cardi fritti: ma anche l’evocativa descrizione della produzione della ricotta, con quell’affiorare dei primi fiocchi raccolti da pastore e consumati caldi, col pane; e poi il mizzicuni, la colazione dei pastori e dei contadini.
Ci offre quindi non soltanto le prelibatezze, ma anche un quadro di una società che forse non esiste più, perché, a poco a poco, questo legame forte con la terra si è attenuato. Non si tratta qui di mitizzare o glorificare i tempi andati (che spesso, non dimentichiamolo, sono tempi di povertà: ad, esempio, pochissime sono le ricette di carne), ma di recuperare il senso delle proprie origini. Per cercare, come lui stesso scrive nella chiusura dell’introduzione, di dare un futuro alla memoria.
Ecco alcuni link utili e/o curiosi:
– Il pezzo di Tucidide citato in apertura, insieme alla storia della Sicilia fino ai Borboni.
– Il sito del comune di Marianopoli
di Stefano Mola