La favola di Marì
Luglio 6, 2007 in Racconti da Redazione
C’era una volta una bambina di nome Marì,
Era bella e buona e tutti l’amavano e l’ammiravano per la sua bontà e intelligenza.
Ma quando iniziò la scuola e imparò a leggere e scrivere capitò una cosa curiosa: si esprimeva prevalentemente in rima anche contro la sua volontà.
Rivolgendosi alla madre, per esempio, le domandava il permesso di uscire con le amichette dicendo:
Mamma, posso prendere con Lucia e Gianna
un gelato alla panna?
Oppure:
Vado di fretta
Andiamo in gita in bicicletta.
Certo era un modo curioso di comunicare, se vogliamo una stranezza, ma siccome c’erano stati esempi illustri nel passato di poesie famose in cui la rima era la regola, la gente (specie gli anziani), finì per abituarsi al vezzo di Marì e anzi a volte qualche bello spirito si provava ad imitarla.
Divenne nota come la ragazza che “parlava in poesia”.
La fanciulla crebbe, col tempo il suo eloquio si arricchì e si fece complesso.
Ad un certo momento però la gente notò che non teneva più in gran conto la rima e la metrica.
Altre cose avevano preso il sopravvento.
Fu un professore che visitandola per un comune mal di gola parlò per primo di Ipotiposi.
La madre di Marì si allarmò:
– E’grave?
-Mannò signora! Anzi è una qualità. Viene dal greco, come “disegnare sotto” quindi significa che sua figlia con lo sviluppo ha imparato a esprimersi in modo molto personale e efficace!
-Sarà, pensò la madre. Fosse un po’ più ordinata e solerte in casa!…
Poi ci si mise anche la supplente di Italiano. Secondo lei Marì era preda di manie e di sensibilità eccessive.
Si notavano dalle sinestesie cioè percezione di più sensazioni unite assieme, rivelate dall’uso e la scelta delle parole e degli accostamenti. Per esempio trovava dolce la freschezza di un bacio (nel frattempo si era fatta il moroso).
E che dire della Sineddoche ?
Non era l’ultimo animaletto esotico importato dal Madagascar. Era semplicemente un artificio del linguaggio che usa un termine al posto di un altro, la parte per il tutto, ad esempio dopo una litigata amorosa concludeva col dire:
“Si sa, l’uomo è fatto così!”
E con il termine “uomo” intendeva non solo il suo, ma la generalità dei maschi.
Col tempo Marì scoperse i giochi di parole, l’Anagramma (a cominciare dal suo nome Marì – rima) e mandando in estasi l’amica Laura con un semplicissimo apostrofo, “L’aura!”
Con lei, in un giorno piovoso che non invitava ad uscire, scoperse la Metonimia, cioè l’andare oltre il nome. Ne fu turbata.
Marì non ricorda come erano venute un giorno a parlare di Picasso. Ebbene, quando proclamò che le piaceva alla follia le amiche risero ma poi furono costrette ad ammettere che ne avrebbero volentieri posseduto uno.
Si espressero così, ma non è di Picasso persona che si trattava: chiaramente intendevano un suo quadro. Ecco la metonimia!
Se il suo Gigi fosse stato che so… uno scultore famoso avrebbe posseduto magari un Gigi o più modestamente un Gigetto. Invece Gigetto era proprio un tipo comune e se ne era tra l’altro stufata.
Un giorno o l’altro avrebbe affrontato il problema, ma con una Metafora, così non lo avrebbe ferito troppo.
Con la metafora si risolvono le situazioni più intricate, lo sanno bene i politici, che le portano oltre con un salto di significato. “Sarà quel che sarà. E che sarà mai?”, “Che sarà sarà!”.
Un film, una canzone famosa… un discorso politico pre-elettorale… se non è sereno si rasserenerà, e che centra Seregno?
Quello che in treno domanda:”E’ Seregno?” E l’altro: “Gno! E’ gnuvolo!”
E’ facile capire che di questo passo uno può ammattire!
E infatti Marì cominciò a non connettere più, diceva coso e cosa a caso per nominare persone e oggetti, addirittura declinava il verbo -cosare-
Fu inviata ad una logopedista (lei diceva “longopodista”) che espresse il parere che in generale era maggior disturbo se càpitano cose ufficiali, graduate nella sfera attenente e attendente al privato.
Tutti si domandarono come sarebbe finita la sua arte del dire, che pareva tanto seguire le vicissitudini della poesia vera. Sarebbe approdata pure lei nell’ermetismo più incomprensibile, un mondo di espressioni surreali, disumanizzato, come l’infante che emette suoni senza senso, o come il vicolo cieco in cui s’è cacciata l’arte?
Sarebbe stato suo il merito di innovare la comunicazione verbale, riportando in secondo piano quella visiva, così prepotente e assordante?
Ancora non c’è risposta. Marì attualmente si esprime onomatopeicamente.
Imita cioè i rumori: tic, tac, bum, zum, toc toc, din dan, sbam…. .
L’altro giorno s’è presa una sberla rispondendo uffah! alla madre.
Per necessità pare tuttavia che anche costei abbia preso a comunicare imitando i suoni.
E pare che il postino, persona notoriamente licenziosa, ieri si sia permesso di fare prrrr!
di effedì