La goccia | Sudate Carte Racconti I edizione
Gennaio 15, 2003 in Sudate Carte da Redazione
Quando arriva la bella stagione, il Politecnico rinverdisce e spuntano tante belle ragazze qua e là. Non che nei mesi invernali le belle ragazze non ci siano ma, insomma, l’abbigliamento estivo riesce ad aiutarle nel farsi notare e, soprattutto, riesce a rendere più “interessanti” le noiose lezioni di noi poveri allievi ingegneri.
La mia storia iniziò proprio in questo idilliaco quadretto semi-estivo. Era giugno, fine giugno, e i corsi stavano per finire. Quel giorno c’era una delle ultime lezioni di “misure elettriche” se non ricordo male o, comunque, qualcosa del genere. Noi – io e i miei amici – eravamo dietro, in fondo all’aula. Il professore indossava sempre un paio di pantaloni scuri e una camicia blu. Quando faceva caldo iniziava a sudare, ma sudava talmente tanto che non vi sono parole per descrivere l’inumano stato nel quale la sua camicia si veniva a trovare dopo una mezz’oretta di lezione. L’odore – diciamo così – che questo professore si divertiva a sfornare ai poveri studenti dei primi banchi era un drammatico cocktail di puzza di fogna e uova andate a male. Nessuno mai gli si avvicinava in questi giorni “no”. Nessuno gli chiedeva mai niente a fine lezione: tutti capivamo sempre tutto.
Quel giorno la lezione finì un po’ prima. Stavo mettendo gli appunti e la penna nello zaino quando fui scosso da un odore che era miracolosamente riuscito a superare quel pietoso miscuglio di effluvi accademici che arrivava dalla cattedra. Era un bell’odore, talmente bello che, non so perché, mi girai quasi di scatto a vedere cos’era ma quando mi volsi vidi solo il viavai di studenti che, giustamente, evacuavano schifati l’aula più puzzolente del Politecnico. Alzai le spalle, quasi per dire: “Peccato!” Poi ripresi lo zaino e scappai anch’io.
Quella sera, come ogni sera, andai a mensa. Dopo aver fatto la fila per lo scontrino e dopo aver fatto la fila per i vassoi, feci la fila per ricevere l’umile e quotidiana cena. “Dimmi!”, “Contorno ne vuoi?”, “La maionese non te la posso dare con quello.” Queste erano le tipiche esclamazioni che le simpatiche dipendenti della mensa ci regalavano durante la consegna del pasto. Quasi mi ci ero affezionato, ormai, a queste parole e al rumore continuo di piatti e posate. Ero da solo quella sera e presi posto ad un tavolo vuoto, il primo che mi trovai davanti. Stavo aprendo la bottiglia dell’acqua con il manico della forchetta, quando fui colpito da un odore. Sì, era proprio quello: era lo stesso odore della mattina, l’avevo riconosciuto. Mi girai di scatto ma non vidi niente, solo la fila dei poveri avventori in cerca di cibo. Iniziai a mangiare tranquillo.
Ero quasi alla fine delle mie trenette al pesto quando sentii una voce. “È libero?” Era una voce femminile. Una bella voce femminile che stentava l’italiano. Prima di girarmi presi il fazzoletto e mi pulii il muso, quasi come le persone perbene. “Certo, prego”, le dissi e spostai il piatto dell’insalata che avevo messo fuori dal vassoio per creare spazio. Era carina. Anzi, diciamolo, era proprio una bella ragazza. Aveva i capelli neri di media lunghezza, occhi neri e, soprattutto, un bell’odore, un bellissimo odore. Un odore, lo stesso che mi fece sobbalzare quella mattina. Continuai a mangiare, pensando a come fare per parlarle. Solo qualche sorriso durante l’insalata.
Quando anche l’insalata era per finire si sentii il rumore di un piatto che cadeva per terra. “Crassshh!”: un istante di silenzio e poi, subito, un applauso fortissimo al quale non potetti astenermi. Neanche la ragazza si trattenne e si mise ad applaudire con me. E così quest’allegra consuetudine studentesca (é normale, infatti, che quando a qualcuno cade qualcosa in mensa, tutti gli dedicano un amorevole applauso schernevole) mi aveva dato la possibilità di rompere il ghiaccio.
“Simpatici, eh?” dissi sorridendo.
“Sì, ma fate sempre così?” mi chiese.
“Sì, é una tradizione acquisita, oramai” e sorrisi. Lei rispose al sorriso, allora le porsi la mano e mi presentai.
“Comunque, mi chiamo Andrea.”
“Mishua, piacere.”
“Mi. . . .”
“Mishua,” mi ripeté più lentamente.
“Ahh, Mishua, ho capito.” Si pronunciava ‘misciua’ o qualcosa del genere.
“Di dove sei, Mishua?” le chiesi.
“Sono rumena. Sono qui per il progetto Erasmus, conosci?”
“No,” risposi, mentendo spudoratamente. “Di che si tratta?”
Mi spiegò. “Ahh, capisco. Bello! Deve essere interessante. . . ”
“Si, molto.”
Annuii, perché non sapevo più che dire. Il discorso s’interruppe per un po’. Arrivammo entrambi allo yogurt e lo consumammo lentamente. Quando finimmo, portammo i vassoi sul nastro trasportatore.
“Ci vediamo domani, allora, Mishua.”
“Ok, ciao Andrea.”
Mi ero innamorato. Beh, innamorato é una parola un po’ grossa, diciamo che era una ragazza carina, i suoi modi erano affascinanti, sembrava simpatica. Mi ero innamorato, insomma.
“Buongiorno Mishua, come va?” le chiesi, sedendomi accanto.
“Bene, grazie. Tu?” mi chiese, togliendo il suo zaino dal posto che stavo occupando.
Io annuii per risposta.
“Ti ho tenuto il posto. La mattina è così difficile trovarne uno avanti. . . ”
“Eh già. Io di solito mi metto avanti ma oggi sono arrivato in ritardo. Se non ci fossi stata tu. . . ” Mentii ancora spudoratamente visto che facevamo a gara ogni giorno per sederci in ultima fila.
Che bello! Mi aveva pensato. Si era ricordata di me e, addirittura, mi aveva tenuto il posto. Quale buongiorno migliore?
Dopo i trenta minuti canonici, il professore cominciò ad emanare il suo splendido tanfo e io, per giunta, non ero abituato a ricevere quel pericoloso miasma così da vicino. Quel giorno, però, l’aria mi sembrava migliore del solito perché primeggiava l’odore della bella Mishua. Era quasi una lotta tra il bene e il male. Ero contento, felice di starle solo accanto. Mi ero quasi innamorato sul serio, insomma. Nelle fugaci pause che il nostro magnanimo docente ci concedeva, io e Mishua andavamo fuori dall’aula, sulle scale d’emergenza, a prendere un po’ di sole e di aria nuova. Parlavamo dello studio, della Romania e dell’Italia, e ci guardavamo spesso negli occhi. Alla fine dell’estenuante lezione, non resistetti.
“Stasera che fai, Mishua? Io stavo andando con i miei amici al ‘Barrumba’, c’è una bella festa. Ti va di venire?”
“Ok” rispose senza pensarci.
Era fatta, che bello! “Allora, facciamo così: ci vediamo alle otto in mensa e poi prendiamo il cinquantotto dalla fermata lì vicino, ok?”
“Va bene, a stasera allora.”
Accennai appena la cosa ai miei amici; se avessero saputo tutto avrebbero sicuramente iniziato a fare simpatiche battute sulla cosa. E poi non mi andava d’indossare la maschera del “maschione” che porta una ragazza a ballare. Non quella volta.
Mi vestii bene, mi ordinai i capelli e mi buttai un litro di dopobarba addosso. L’odore era importante, l’avevo capito. Mi sentivo quasi a disagio a fare la fila con i vassoi in mano, vestito com’ero. Mentre avanzavo, tra le solite esclamazioni delle signore che servivano il prelibato rancho, vidi Mishua che faceva la fila dall’altro lato. Ci guardammo e sorridemmo. Mi emozionai.
Trovai un tavolo libero e occupai due posti. Quando Mishua si avvicinò, mi alzai e le diedi un bacio sulla guancia. Nell’avvicinarmi al collo sentii ancora quello stupendo odore. Mishua non portava il profumo. Portava il suo odore. E, probabilmente, mi ero innamorato prima del suo odore che non di lei. Mangiammo e, quando finimmo, prendemmo il cinquantotto.
Il Barrumba era affollatissimo. Lo spazio era ristretto e la musica era ad alto volume: si faceva molta fatica a parlare. Allora io e Mishua parlavamo con gli occhi, confidandoci il piacere reciproco a stare insieme. Per le poche parole che dissi mi dovetti avvicinare alle sue orecchie e al suo collo profumato. Poi le chiesi di ballare. Lei non rispose neanche: mi guardò, si alzò dal tavol
o, mi prese per mano e mi accompagnò in pista. La sua mano era umida, faceva caldo e si sudava molto. Tutti sudavano molto in quel posto. L’odore di sudore era talmente forte che fui tentato dal guardarmi attorno per vedere se c’era il mio amatissimo professore puzzolente, in agguato in qualche anfratto. La mia preoccupazione svanì quando vidi Mishua che mi ballava di fronte. Era bella, agile e conturbante. Non resistetti molto al suo odore affascinante e, grazie anche alla consumazione obbligatorio che mi ero da poco scolato, mi avvicinai alle sue labbra e la baciai. Lei quasi si ritrasse in un primo momento. Ma era solo per trovare una più comoda posizione: ci baciammo a lungo su quella pista e, quando tornai a casa, il suo odore era ancora appiccicato ai vestiti.
La nostra bella storia cresceva di giorno in giorno. Ogni sera, arrivavamo a dire che era “sempre peggio,” nel senso che ci sentivamo sempre più legati. Un giorno i miei amici decisero di trascorrere il weekend al mare, in Liguria. Quella giornata fu indimenticabile: lei era bellissima in costume e il suo odore era più forte del solito. Faceva molto caldo. Prima di farci l’ennesimo bagno avvenne una cosa che mai scorderò. Io ero steso sull’asciugamano e lei si mise su di me per darmi un bacio in un modo. . . più caratteristico, diciamo così! Ricordo ancora l’immagine che avevo dinanzi: il sole, forte, sullo sfondo che nuotava nel cielo terso e il bellissimo volto di Mishua che si allontanava dopo avermi baciato. In quell’istante, una goccia di sudore le si raccolse sulla fronte, sopra il sopracciglio destro. Il tempo sembrò fermarsi e la spiaggia sparire. La goccia si staccò dolcemente, cadde sotto il mio naso e scivolò fino ad annegare nella mia bocca. Era il suo sudore. Era quello che mi aveva fatto innamorare di lei. Il sudore. Sì, proprio lui. L’avevo capito. Quella goccia era un concentrato del suo splendido odore. Il sapore era buono, dolce e salato. La tenni in bocca. Poi deglutii. Il sudore di Mishua mi aveva fatto perdere la testa. Lei capì come quel semplice evento mi lasciò entusiasta. In quel momento non chiedevo altro. Quasi mi sembrò uno spreco farsi il bagno e perdere, così, chissà quante altre fantastiche gocce. Il sudore di Mishua divenne l’elisir della mia felicità.
Ma ogni elisir ha un retrogusto amaro.
Un giorno Mishua stava guardando nel vuoto. Rimase in silenzio e poi disse: “Devo prepararmi.” Io capii a cosa si riferiva. Non dissi niente. Tutte le storie belle prima o poi finiscono. La nostra era una storia bella.
Non serve proseguire a raccontare. Quello che avvenne. . . c’era solo da aspettarselo. Il nostro rapporto si trasformò in una serie di e-mail. E la distanza le fece diventare sempre più corte e fredde. Il dolore porta all’involontaria rimozione dei ricordi, questo si sa. Ma il suo sudore. . . quello no. Il suo sudore non si rimuove. Quella goccia mi galleggia in testa da quella mattina al mare. Penso che il tempo non riuscirà mai a farla evaporare.
Il sudore delle persone non evapora mai.
di Andrea De Mauro