La maschera impalpabile della diplomazia
Maggio 23, 2001 in il Traspiratore da Simona Margarino
C.J. era un uomo di trentotto anni, pulito e senza tanti grilli. Con tutta la genia efebica di maschi che lo circondava sarebbe serenamente disparito entro la massa amorfa del pollaio se non fosse stato per un particolare mica da poco, degno di un attestato di benemerenza: giusto sotto l’attaccatura del naso gli pendeva un velo, nero, lungo fino al collo, ad ottenebrare il respiro che, pulsando, raschiava attraverso la carotide, pur di venir fuori. Ce l’aveva piantato lì Theresa, sua moglie, quella volta che aveva sorpreso a lustrarselo con l’avidità feroce degli occhi il circolo delle sue tre migliori amiche, aristocratiche nobildonne d’indistinguibile, barbaro casato.
C.J. non aveva il minimo dubbio sull’esistenza d’impedimenti che gli avrebbero consentito di strapparsi quel telo di dosso: l’inutilità, i dettami della moda, il buonsenso. Però, quasi per dispetto, se lo teneva appiccicato come fosse un anello di fedeltà da esibire. Perché poi protestare sarebbe stato spippolare un grappolo d’uva dai diecimila chicchi: richiedeva troppo tempo, troppa energia, troppo spirito di contrarietà. Ad impicciarsi, non che fosse un debole, anzi, il suo volto seminascosto covava una forza da spaccare in pezzi un diamante. La reticenza poteva forse esser prodotto di un sospirato viver serafici, di quell’istinto alla sottomissione che ti fa sopportare di reggere sulle spalle una testa addrappata meglio di un cavallo.
Ma se era la pace a volersi, beh…
Dacché aveva adottato la museruola non incontrava più alcuna difficoltà contro cui destreggiarsi: né uno zufolo di approvazione, né una mano approdata per sbaglio sulla tasca posteriore dei pantaloni, né un commentello salace. Invero notato lo era, ma anche evitato. Almeno nei primi mesi di questa saga instancabile. Tuttavia ciò di cui Theresa non aveva afferrato l’esatto, minutissimo peso era l’attrazione che la ghiottornia femminile dai tempi della pietra nutre nei confronti dell’ambiguità in sospeso, del mistero più precisamente. La pezzuola di cotone scura, tanto coprente, si rivelò perciò a breve un accessorio d’inintelligibile, inintelligente turbamento, un motivo conturbante. L’immaginazione pensò a una bocca da tirabaci, a denti da cui farsi assaggiare, a un mento già proteso verso la bellezza dell’ora ultima, meravigliosa e fatale. Colava oro sul calco della statua esposta a metà, da dietro il bavaglio. Sul gesso poteva esserci chissà quale miracolo dell’arte, pronto a risbocciare.
In breve il fronte d’approvazione si allargò oltre qualsiasi previsione, degenerando in un tumulto di delirio. L’eco sciamava accondiscendente sulle tracce di una marionetta di legno, tanto ambigua quanto insperata, paurosa, attraente. La situazione denunciava un chiaro appello alla deposizione di ogni preconcetto o discriminazione: era esattamente la diversità di quell’uomo in nero, in questo caso, a eccitare la questione. Si mostrava l’oscurità onde appropriarsi della sua intima luce, in un viaggio oltre immensi pericoli. Ma siccome a tutto c’è un limite, esasperazione in primis, la moglie un mattino gli ficcò sul cocuzzo anche un asciugamano da cucina, a intrappolargli i capelli. Lui non si oppose, ben riconoscendo che l’estetica piegata da un fazzoletto a quadri non solo non veniva in alcun modo a misurarsi con sua intelligenza, ma al contrario ne rafforzava i contorni, rinunciando alla contesa. Ancora una volta remissivo, C.J. accettava così di calarsi nella fossa degli uomini anonimamente invisibili.
Dopo la solita prevedibile indifferenza, in ossequio al femminile amore del bello, di prepotenza si imposero i suoi avambracci. Poiché le magliette sottolineavano quel portento di braccia, Theresa, arrendendosi all’evidenza, si trovò ad acquistare solo più camicie dalle maniche lunghe, sotto le quali i muscoli, pur faticando a celarsi, si sottraevano comunque alla vista. Ciò che proprio non tollerava era che la dote più eclatante della sua mezza mela, il flessibile cellophan esterno che avvolgeva il suo animo, si pavoneggiasse dinanzi ad altre donne, come dalla copertina strangugliata di una rivista per ninfomani esigenti. Quello strato superficiale, che doveva appena rivestire l’ammasso dei sui pensieri e poi estinguersi sotto l’usura del tempo, rischiava invece di assurgersi a olimpico campione, esempio di teutonico slancio o vitaminica vittoria.
C’era da ricordarsi, però, che la visione esplicita e generosa della perfezione non si la si può secondare mai. E allora ecco sempre ammantarla di uno spregiudicato cappotto, una finta malattia, una crepa, un cordone tirato, un angelo guardiano. Per tramutarla in qualcosa di mai visto. La roccaforte, ebbene sì. La mistificatrice roccaforte inespugnabile. Così salda, così fortificata, così ammaliante da non poterle resistere, da insinuarsi nelle viscere delle sue segrete e dei suoi inganni, fino alle soglie del travestimento, fino a quando, avvistato il primo varco, ci si butta a capofitto, quasi trattenendo il respiro, per scoprire che non tutto è come si pensava, neppure la realtà, neppure l’imbroglio.
C.J era una fortezza, alla sua povera maniera. Gli avevano chiuso le finestre, inchiodato le porte, coperto il soffitto sotto una nuvola velata, come all’alba di una penitenza, da scontare per peccati forse mai commessi. Non bastava, in un lampo di genio, inventarsi il meccanismo per abbassare il ponte, attaccare le scale ai muri e valicarne i confini, esultanti; occorreva farlo velocemente, perché le ombre della meridiana infissa sulla fronte della torre scendevano e risalivano al ritmo rapido di una cascata, un giro d’acqua incessante al cadere e risorgere del sole, tic tac tic tac tic tac tic tac, 39, 40, 41…
Intanto, per completare l’opera difensiva, fu la sua zona increspata tra le occhiaie e il naso rumoroso ad esser in seguito passata sotto silenzio, se consentite la metafora, e poi quella piana tra le sopracciglia e l’inizio dei capelli, un filo brizzolati. Sebbene il corpo ora informe, privo persino di un’etichetta (che dicesse anche solo “uomo di strada offresi” o qualsiasi altra appetibile chincaglieria) e imbottigliato meglio di una lattina, non paresse offrire granché, e quel nulla pure a sprazzi, non mancavano gli assedianti.
Così, per regolare definitivamente i conti, sino all’inesorabile calvario, di lì non passò molto prima che Theresa gli foderasse anche i piedi, le gambe, gli occhi e, da ultimo, le parole. Infine, quando C.J. fu tutto mummificato, e nemmeno lei se lo filava più, aspettò che l’ossigeno defluisse dal cervello facendolo morire di asfissia, dopodiché lo mise in un sarcofago e lo consegnò, soddisfatta, al Museo di Antropologia della Capitale.
di Simona Margarino