La metamorfosi di Brunilde | Sudate Carte Racconti I edizione
Dicembre 31, 2002 in Sudate Carte da Redazione
Riconosco che non fu una scelta felice quella di fare visita al mio amico tedesco Willy nel periodo più freddo dell’anno (le vacanze di Natale, appunto) in una delle regioni più fredde dell’Europa continentale e della Germania in particolare: la Turingia, situata a nord quanto basta per vedere la luce del sole poche ore al giorno e solo di sbieco, e interna al continente quanto basta per essere immune al benefico influsso delle tiepide correnti marine d’oltreoceano.
Consona al clima inospitale fu la percezione che ebbi della gente del luogo, nei pochi giorni di permanenza in quella cittadina di provincia ibernata dal gelo. Le persone che incrociavo per strada riflettevano perfettamente l’immagine tipo del Germano alto, biondo, occhi azzurri, sguardo tagliente. In ogni luogo o situazione in cui mi imbattevo verificavo puntualmente quell’antitesi nord-sud di sapore ancestrale che per secoli ha marcato di incomprensioni i rapporti tra i popoli di stirpe romanza e i popoli nordici: a sud il sole splende sempre, il clima è mite, la vita è facile. Nel nord tutto è tetro e triste, l’inverno è interminabile, il paesaggio è ostile…
Fu la volontà di scuotermi da questi pensieri negativi che mi fece considerare il suggerimento dell’amico Willy: “Perché non vai a farti una bella sudata in palestra? Domani starai molto meglio”. Lì per lì non ci feci troppo caso, ma la parola ‘sudata’, anche se pronunciata senza un’enfasi particolare, quasi a bruciapelo, mi mise per un istante in una condizione per così dire di ‘sospensione’: l’idea di sudare, che da sempre inconsciamente associavo a momenti di intensa calura, mi appariva quantomeno insolita in un ambiente del genere. Ma fu proprio questo lieve sbandamento che innescò in me la curiosità di provare, ed accettai volentieri la proposta.
Quando raggiunsi la sala degli attrezzi mi guardai intorno per un attimo, non sapendo da dove cominciare. D’altra parte ero deciso a cominciare una qualsiasi cosa, se non altro perché mi infastidiva mostrare agli altri la mia insicurezza. Sentendomi straniero e quindi diverso finivo per assumere un atteggiamento difensivo, sul chi va là, attento a raccogliere e studiare ogni suono che mi circolava intorno. Non appena cominciai gli esercizi di riscaldamento, liberata la mente da quel senso di disagio del forestiero, mi apparve riflessa nel grande specchio da parete la figura di una donna. Non più giovanissima, ma ancora con una pelle fresca e soda, anche se insolitamente bianca, sfuggiva beffardamente ad un qualunque tentativo di assegnarle un’età precisa. Si stava esercitando con quell’attrezzo ingombrante che aiuta a sviluppare pettorali e dorsali: ci si siede, schiena dritta contro il sostegno, braccia ad altezza spalle, avambracci a novanta gradi, mani che afferrano manubrii collegati a pesi da funi. Si esegue ciclicamente un movimento di apertura e chiusura delle braccia, senza interruzione.
A dispetto di un abbigliamento opaco e un po’ logoro il suo fisico era straordinariamente atletico e vigoroso, e non per questo privo di grazia. Le forme generose erano costrette in un body particolarmente attillato che pareva stentasse a contenere il torace nella fase di inspirazione-espansione. Una fascia bianca le passava intorno al capo costringendo la folta e lunga chioma a cascare dietro le spalle così che i muscoli dorsali (i veri motori dell’esercizio), parzialmente esposti, non avessero occasione di rilassarsi. Una cintura elastica nera intorno alla vita e un paio di guanti da palestra le conferivano un’immagine minacciosa, quasi guerriera. Anche l’espressione del volto non era tenera: gli occhi
fiammeggianti rivelavano una concentrazione e un impegno non
comuni. Le labbra carnose, a causa del capo leggermente reclinat
erano appena schiuse e lo sguardo fisso su un punto all’infinito svuotava di importanza tutto quanto era intorno a lei, me compreso. I movimenti del corpo erano precisi, ritmici, non mostravano alcun segno di affaticamento o sofferenza: al passare dei minuti si ripetevano sempre uguali, come se non le costassero alcuno sforzo.
Ai miei occhi questa esibizione fu come la rivelazione di una natura divina. Ripescando nella memoria le leggende della mitologia nordica mi ricordai di Brunilde, eroina buona, divinità guerriera figlia di Wotan, colei che dà il titolo alla prima giornata della tetralogia wagneriana (‘La valchiria’, appunto). Secondo il dramma musicale Brunilde viene rinnegata dal padre per avergli disobbedito, viene privata della sua divinità e condannata ad un sonno profondo su una rupe circondata di fuoco. Solo il bacio di un eroe valoroso, Sigfrido, la risveglierà ad un’esistenza umana.
Mi lasciai coccolare da queste fantasie per qualche istante, quindi cercai di osservare meglio quella donna per vedere se e quanto stesse sudando. Infatti erano oramai trascorsi parecchi minuti, ma all’apparenza il suo corpo continuava ad essere perfettamente integro, a differenza di me che cominciavo a bagnare vistosamente i miei indumenti, pur eseguendo un esercizio molto più lieve del suo. Forse fu anche perché mi sentii umiliato da questo confronto che decisi di interrompere la mia sciocca ginnastica e di ritirarmi nello spogliatoio.
La doccia ebbe un effetto rinfrescante, molto gradevole, al punto che la prolungai per parecchi minuti. Mentre mi asciugavo mi accorsi che poco più in là, in fondo al corridoio, c’era una sauna. Ricaddi per un attimo in quello stesso stato di sospensione incredula che avevo provato ore prima con Willy: mi ritornò in
mente l’opposizione freddo-caldo che tanto mi aveva scosso. Un istante dopo provai uno stimolo ad entrare, sempre più insistente. Non mi preoccupai del fatto che indossavo solo un asciugamano avvolto intorno ai fianchi, e che, una volta dentro, avrei dovuto levarmelo. Si sa: in sauna si va nudi, nudi come le bestie. E soprattutto si va apposta per sudare. Anziché rifuggire dal sudore, come avevo fatto prima nella sala degli attrezzi quasi per istinto, ora gli sarei andato incontro. Anzi, l’avrei atteso seduto sulla panca, l’avrei visto comparire pian piano, l’avrei osservato colare in quantità fino a sentirmi completamente secco, prosciugato.
Cullavo ancora questi pensieri quando aprii la porta della sauna, ma una volta entrato ebbi una sorpresa che mi fece letteralmente impallidire: in fondo alla piccola stanzetta, sulla panca superiore, distesa supina giaceva Brunilde, ovvero la donna che poco prima mi aveva così tanto impressionato.
Era completamente nuda, ed era l’unica presenza nella stanz
a, a parte me.
Reagii istintivamente abbassando gli occhi e voltandomi un poco, come quando ci si accorge di essere finiti per sbaglio nel bagno delle signore. Quasi subito però mi resi conto che non c’era in fondo nulla di sbagliato: effettivamente in Germania nelle saune miste non c’è l’obbligo di indossare il costume (i Tedeschi non ne fanno una questione di pudore).
Avendo in un attimo ripreso il controllo scelsi con cura una postazione che mi permettesse di osservarla bene, anche se con discrezione. Da parte sua Brunilde aveva gli occhi chiusi: pareva che dormisse, ma in realtà era semplicemente rilassata. La sua posa era scultorea. La sua immobilità provocava una sensazione ambivalente di pace e di eccitazione. Qualcosa però era cambiato rispetto a prima: il suo volto aveva abbandonato del tutto quei
tratti combattivi i fieri, ed esprimeva un sentimento di
arrendevolezza. Aveva deposto la sua armatura: ora appariva a me integralmente nuda, con in più la naturalezza di chi non sa di esserlo.
Non saprei dire da quanto tempo Brunilde fosse nella sauna; di una cosa ero certo: finalmente stava sudando, e copiosamente. Le gocce che imperlavano oramai tutto il suo corpo lentamente crescevano in volume. Raggiunto un peso limite scivolavano giù per la pelle conglobandosi l’una con l’altra e formando minuscoli rivoli, i quali o finivano col
disperdersi sul legno della panca, oppure affluivano nelle parti concave del suo corpo: nelle ascelle, alla base del collo, tra i seni, nell’ombelico, tra le dita delle mani e dei piedi. E per ogni goccia di succo che si staccava altre cinque o sei lì intorno germinavano ed il processo si rigenerava continuamente. Ad un certo punto Brunilde, mantenendo la stessa posizione del corpo scostò leggermente un gluteo verso l’esterno così che la gamba potesse liberamente cascare lungo la parete verticale della panca e ciondolare dolcemente, con il piede completamente scarico da ogni peso. In questo modo le gocce di sudore trovarono un cammino privilegiato: giù lungo la gamba fino alla caviglia, poi giù giù lungo il piede fino a raccogliersi sulla punta e colare da questa sul ripiano sottostante, formando con il passare dei minuti una piccola pozza.
Tutto questo succo, così umano, assumeva ora per me un senso completamente nuovo: era la prova definitiva della metamorfosi di Brunilde, il segno della trasformazione che la avrebbe resa una creatura umana. Brunilde, immersa nel suo sonno profondo, in quel luogo infuocato dal calore attendeva che il suo destino si compisse, che Sigfrido con un bacio la risvegliasse.
Ero quasi sul punto di alzarmi e di avvicinarmi a lei, quando mi
anticipò: si drizzò di scatto, si asciugò in fretta e senza degnarmi di uno sguardo se ne andò via. Il colpo mi tramortì, mi gelò il sangue: tutto il castello di fantasie che avevo pian piano costruito era crollato in un istante.
Ma era davvero svanito tutto quanto?
Restava una panca ormai fradicia e la pozza di succo formatasi sotto il suo piede grondante.
Mi avvicinai al luogo della sua assenza e lo contemplai. Immersi il palmo della mano nella pozza, lo accostai alle narici ed inspirai profondamente, andando alla ricerca di un odore di donna, primitivo, animale, ma inutilmente. Tentai un ultimo gesto estremo: avvicinai la mano alla bocca e leccai parte di quel succo. La percezione fu di salato e di lievemente amaro, con sfumature di gusto difficili da descrivere, ancor più da rivivere nel ricordo. Mi inebriai di sensazioni così potenti che fui sul punto di svenire. Cercai di scuotermi; barcollando uscii fuori dalla sauna appena in tempo per non essere sopraffatto dall’oblio.
di Enrico Marengo