La mitzvah segreta di Lucio Burke
Aprile 25, 2006 in Libri da Stefano Mola
Titolo: | La mitzvah segreta di Lucio Burke |
Autore: | Steven Hayward |
Casa editrice: | Instar libri |
Prezzo: | € 16,00 |
Pagine: | 344 |
Che cosa ci racconta Steven Hayward in questo romanzo (Premio Grinzane Autore Esordiente, in coabitazione con Ornela Vorpsi)? Prendendo in prestito mozziconi di titolo, verrebbe da rispondere: la storia di Lucio Burke. Che vive a Toronto, Canada, all’inizio degli anni trenta. Che un giorno su un campo da baseball raccoglie una palla da terra ed esegue un lancio perfetto. Che questo lancio imprime una traccia indelebile e incomprensibile nella bellissima Ruthie Nodelman, Ruthie la rossa (di capelli e soprattutto di fede politica).
Lucio ha diciassette anni, Ruthie tre di più. La stessa età di Lucio ha Dubie Diamond. Sono nati sullo stesso tavolo, a pochi minuti di distanza. Le case dei Nodelman, dei Diamond e dei Burke sono identiche, una accanto all’altra. Lucio, Dubie, Ruthie sono in quel momento della vita in cui ti senti a metà del guado. Non più ragazzetto, ma neanche e non ancora qualcos’altro. Qualunque cosa sia quel qualcos’altro (riusciremo mai a diventare quel qualcos’altro? Ma questa è una domanda troppo pensate e senza risposta, forse). Ruthie forse almeno sa che cos’è: la rivoluzione. L’avvento del comunismo. Lucio ha dei bellissimi occhi azzurri, di cui non è consapevole fino in fondo. Ruthie gli dice, per esempio, a pagina 33, subito dopo il suo lancio perfetto:
Sai una cosa Lucio Burke? – aggiunge. – In te c’è più di quanto pensi.
Steven Hayward è bravissimo a descrivere proprio questo: l’essere in mezzo al guado, l’essere adolescenti, il sentire oscuramente di voler diventare qualcosa e qualcuno, e la paura di non potercela fare da soli, il timore di cercare in fondo alle proprie tasche e non trovare niente, il guardarsi intorno attoniti e stupiti e anche a volte arrabbiati nella ricerca di un segno, di un qualcosa al di fuori di noi che ci mostri la strada. Sono stupende le pagine in cui Dubie Diamond legge compulsivamente l’Origine della specie di Darwin sperando di trovare una ricetta di cambiamento:
Gli sembrava che Darwin dicesse esattamente ciò che lui voleva sentirsi dire. Quel libro era scritto per persone come lui, persone che vogliono evolvere. […] Dubie si sarebbe rifiutato di fermarsi allo stadio del coniglio. […] Lui si sarebbe evoluto. E Darwin gli avrebbe insegnato come fare. […] Ma non ci volle molto perché Dubie cominciasse a sospettare che L’origine della specie non contenesse la soluzione ai suoi problemi. Era un libro sull’evoluzione, ma non spiegava come evolvere [pagg. 138-139]
E gli amori, ovviamente. Ma qui ci fermiamo per non rovinare troppo il gusto della trama con moleste anticipazioni. Vi lasciamo solo un pensiero di Ruthie:
È stata una sensazione strana, qualcosa di forte e incontrollabile. E sebbene continui a ripetersi il contrario, Ruthie sa che quella cosa è ancora lì, dentro di lei. Che cosa gliene importa se Lucio sa lanciare una palla da baseball? Che cosa c’entra? È irrazionale. Eppure ha aspettato il ragazzo nel vicolo finché lo ha visto arrivare con la spazzatura. Poi gli si è gettata tra le braccia come Greta Garbo con i suoi amanti in La carne e il diavolo. Ruthie ha capito che Lucio è attratto da lei, ma che al tempo stesso è terribilmente confuso, perché non riesce a guardarla negli occhi. [pag. 86]
Un’altra cosa. Fate caso a nomi e cognomi. Lucio, Burke, Nodelman. E poi, altri che non abbiamo ancora citato: Greico, Mordechai, Bucci. Un melting pot. Italiani, ebrei, canadesi. Toronto è Canada, ma più genericamente vista da lontano, con un oceano di mezzo, è America, o La Merica, senza troppe distinzioni di confine. Ecco un’altra cosa che Steven Hayward è molto bravo a fare. Raccontare la mescolanza, l’intreccio di povertà e avventura e caso che ha portato quella gente lì, in quel momento, a Toronto, nella settimana prima della finale del campionato juniores di baseball. La sofferenza, certo. La difficoltà di mettere insieme il pranzo con la cena, anche. Ma lo fa in un modo leggero, tenendosi così lontano dalla retorica, dal fazzoletto bagnato di lacrime obbligatorie in tasca che l’emigrazione, la discriminazione razziale sono cose che avvertiamo, su cui riflettiamo, ma che passano come bigliettini sotto la porta che ti ritrovi in tasca, e di cui però non ti dimentichi. A Toronto, agli inizia degli anni 30, c’erano gruppi di simpatizzanti nazisti. Davvero, non è un’invenzione. Lo impari, lo tieni lì: però ti attacchi alle storie.
Perché secondo me il segreto sta proprio lì: nella capacità di Hayward di raccontare le storie. Non solo quelle del tempo della narrazione, quei giorni tra il lancio perfetto di Lucio e la già citata finale del campionato giovanile di baseball. Di ogni personaggio traccia una specie di genealogia: come la sua famiglia è arrivata a Toronto, come si sono conosciuti i suoi genitori. E il fatto è che sono storie bellissime. Come quella dell’incontro tra il padre e la madre di Lucio (ma anche qui, non voglio rovinare niente). Un’altra cosa bella di Hayward è che ama i suoi personaggi: senti che gli vuole bene, anche quando li prende un po’ in giro, sotto sotto, c’è un grande affetto.
Un libro ricco di storie, ma senza esserne soffocato. Ogni tanto la narrativa nordamericana, secondo il mio modesto e discutibile parere, ha questo pregio/difetto: conferisce un grande valore alla trama (valore secondo assoluto della narrativa), andando spesso alla ricerca dell’originalità di personaggi e accadimenti al limite del gioco di prestigio (guarda che storia riesco a raccontarti), rischiando l’ipertrofia, l’affollamento di mirabilia, il colpo ad effetto fine a se stesso. Secondo me qui Hayward riesce a evitare questo rischio e a regalarci un libro veramente godibile.
di Stefano Mola