La Nba si ferma, re Jordan se ne va
Luglio 10, 2003 in Sport da Federico Danesi
Quindici punti per chiudere un’era. Michael Jordan saluta e se ne va. E lo fa alla sua maniera, finendo la sua ultima stagione agonistica come miglior marcatore della sua squadra, con una media appena superiore ai 20 punti. Una standing ovation lunga due più di due ore quella che gli ha riservato il pubblico di Philadelphia, solitamente non molto tenero con gli avversari. “E’ stato un grande divertimento anche quest’anno, ma è arrivato finalmente il momento di smettere. Ho riprovato il piacere di giocare e competere, di divertirmi, ma adesso mi posso ritirare. E vi assicuro che questa volta è una scelta definitiva”. Così ha salutato tutti alla fine.
Come spesso gli è successo quest’anno, anche in trasferta Michael giocava come in casa perché tutti, o quasi, erano lì per lui, per vederlo un’ultima volta. E così tre minuti e mezzo di applausi ininterrotti all’inizio, un boato ogni volta che ha toccato il pallone e un coro unico quando, nell’ultimo quarto, sembrava non dovesse più rientrare: “We want Mike” urlavano i 22mila del Fisrt Union Center. “Vogliamo Mike”, e lo hanno avuto. Per un ultimo minuto, quello che è servito a fargli segnare ancora due punti con due liberi, e a risedersi in panchina per l’ultimo lunghissimo tributo.
“We want Mike”, tre semplici parole che ricordano molto da vicino quelle di uno slogan pubblicitario che ha fatto la fortuna della casa d’abbigliamento che lo accompagna da sempre: ‘Be like Mike’). E sono stati moltissimi i giovani americani, non solo d’origine afro, che negli anni ’80 e ’90 hanno provato a diventare come lui. Qualcuno con un po’ di pazienza ha calcolato che Jordan, nei suoi 18 anni di carriera, è riuscito a far maturare grazie al merchandising e agli incassi un fatturato di 10 miliardi di dollari. Basterebbe questo perché la Nba gli facesse un monumento. I suoi Bulls ci hanno già pensato, i Wizards, nei quali dal mese prossimo dovrebbe rientrare da dirigente, non ancora, per quanto nelle ultime due stagioni l’Mci Center, campo di casa, abbia fatto registrare sempre il tutto esaurito, un miracolo che non succede neanche ai Lakers campioni.
Unico nella storia di questo sport a segnare 40 punti all’età di 40 anni nell’Nba, miglior giocatore della Lega per cinque volte, miglior atleta dei playoff per sei, guarda caso tutte le stagioni nelle quali i suoi Bulls hanno vinto il titolo, miglior marcatore della Lega per dieci stagioni, sette volte consecutivamente. Cifre, semplici cifre, che da sole non bastano per spiegare quello che ha rappresentato il numero 23. Scelto con il numero tre nella ‘lotteria’ del 1984 dietro a Olajuwon e Bowie (Portland ancora si mangia le mani…) ha cominciato a vincere un titolo solo nel ’91, ma sin dall’inizio ha fatto la storia. Come quando nel 1986 ne mise 63 a referto al Boston Garden, davanti a Bird e compagnia. Ha vinto tutto, è vero, ma come lui stesso ha sempre confessato, il basket è stato competizione e soprattutto divertimento, pura passione. Raramente capita che uno sportivo si congedi con la sensazione che abbia dato più di quello che ha ricevuto dal suo mondo. Eppure per lui è così. È stato in grado di scatenare passioni trasversali, unendo bianchi e neri, esulando dai meri confini americani, diventando un simbolo mondiale. Il più grande cestista di sempre, probabilmente il più grande sportivo, almeno sul suolo americano.
Adesso per lui comincia una nuova carriera, quella da dirigente a tempo pieno. A Washington, dove può riprendere le sue quote societarie, o Chicago, dove verrebbe accolto come il Salvatore, senza voler sembrare eretici, poco importa.
di Federico Danesi